Diciamo la verità: non capita spesso che si parli di fantascienza sulle riviste letterarie italiane (quelle che di solito tra appassionati vengono etichettate come mainstream senza guardar tanto per il sottile). E ancor meno spesso si parla di fantascienza italiana. Non meraviglia quindi che l'uscita del numero 68 di Nuovi Argomenti, illustrissima rivista fondata nel 1953 da Alberto Carocci e Alberto Moravia, e intitolata "Urania 451" (credo di non dover spiegare le allusioni...) abbia suscitato un certo scalpore nell'ambiente della fantascienza nostrana. Anzi, diciamo che si è scatenato un vero vespaio. E un vespaio particolarmente inferocito, perché la rivista non si limita a pubblicare contributi di critica letteraria, ma presenta soprattutto racconti o brani di romanzi; ma in questo caso gli autori che sono stati inclusi nel numero erano tutti o quasi personaggi del totalmente estranei all'ambiente della fantascienza di casa nostra. Non meraviglia dunque che le proteste più accalorate siano venute da qualche scrittore di fantascienza evidentemente risentito per essere stato bellamente ignorato dal curatore del numero, Carlo Mazza Galanti. Ne è nata una discussione accalorata su FaceBook e altri luoghi di dibattito digitali sulla quale preferirei sorvolare, ma chi voglia non avrà difficoltà a rintracciarla ricorrendo a Google o altri motori di ricerca.
Preferisco piuttosto proporre una mia modesta recensione del materiale contenuto nel numero di Nuovi Argomenti, cercando di tenere la discussione sul descrittivo (ma senza esimermi dal formulare una mia valutazione ovviamente assai personale e suscettibile a sua volta di essere messa in discussione, ma ben vengano commenti e dibattito sull'argomento); perché alla fine della fiera, come si suol dire, una pubblicazione come questa va giudicata non tanto andando a vedere se sono stati coinvolti i "mostri sacri" o i "soliti noti" della fantascienza italiana, ma se Nuovi Argomenti ci ha fatto leggere qualcosa di buono, sia come contributi critici, sia come scritture creative. Personalmente sono pronto a leggere fantascienza scritta da autori specializzati nel genere o da scrittori che nel genere fanno solo una scorribanda occasionale; con e senza astronavi sulla copertina; pubblicata da Delos o Fanucci, oppure da Adelphi ed Einaudi. Basta che sia fantascienza, e che sia ben scritta. E magari, se possibile, qualcosa di originale.
Partiamo comunque dai due scritti critici, in primis il "saggio" di Tommaso Pincio. Le virgolette sono necessarie. Se Pincio l'avesse definito "ricordi di uno scrittore", magari aggiungendo "che leggeva fantascienza nella sua giovinezza", sarebbe stato anche accettabile. La storia di Pincio fino a un certo punto corre parallela alla mia: deve aver cominciato a leggere fantascienza su Urania negli anni 60 e continuato nei 70... forse con qualche sconfinamento sulla Nord, ma visto che non la cita mai viene il dubbio che da quelle parti non ci sia passato.
Il tema centrale è comunque la fantascienza scritta da italiani. Della quale Pincio ha una visione parziale. Già il titolo è tutto un programma: Il marziano in cattedra. Voleva far imbufalire gli scrittori italiani di fantascienza, Pincio? Conosce i compitini a casa del Marziano in cattedra, certo; ma glissa su parecchi degli autori sotto pseudonimo arruolati da Monicelli; dichiara arbitrariamente che gli italiani più di tanto non sapevano fare, per cui avevano ragione Fruttero e Lucentini a dedicarsi agli stranieri. Quest'ultima la trovo una presa di posizione decisamente discutibile: uno non può non chiedersi cosa sarebbe successo se F&L avessero continuato a dare spazio agli italiani, anche continuando con la politica degli pseudonimi; non può non chiedersi cosa sarebbe successo se avessero applicato le loro doti editoriali – se esistevano – a migliorare il prodotto degli italiani, anche solo puntando a narrativa di intrattenimento; ma niente, i due furbacchioni puntarono alla vita comoda, pubblicare romanzi stranieri già "lavorati" all'estero, per di più nelle famigerate traduzioni sforbiciate.
In realtà Pincio batte soprattutto la strada degli scrittori "per bene" (Landolfi, Morselli, ecc.) che praticarono la fantascienza, però in chiave filosofica (e neanche quelli li conosce tutti: dov'è finito il Corrado Alvaro di L'uomo è forte e Belmoro?); però trascura gli scrittori che pubblicavano per esempio su Galassia, da Aldani a Montanari a Curtoni. Non saranno stati Dick né Ballard, ma qualcosa di buono l'avevano pure pubblicata. Eppure in questo articolo non esistono.
Poi, quando si arriva al 1980, cala il sipario, sia per gli stranieri, sia per gli italiani. Evangelisti? Avoledo? Brizzi? Tonani? Masali? Chi li ha visti? Spariti nel nulla. E non parliamo di quelli che sono rimasti, per così dire, "interni al ghetto". Come se non esistessero.
Ora, ripeto, se non lo si fosse presentato come saggio uno potrebbe anche starci: Pincio ci racconta il suo passaggio nel mondo italiano della fantascienza, senza pretendere di fornire un quadro esaustivo, basato sui suoi ricordi e le sue letture. Invece nell'introduzione Carlo Mazza Galanti ce lo presenta come "solido e sostanzioso controcanto critico". Afferma che Pincio "individua le coordinate storico-culturali del genere all'interno delle nostre lettere, ricostruendone la parabola dalle prime riviste e antologie degli anni cinquanta fino a tempi più recenti".
Posso capire che prefattore e curatore deve presentare nella luce migliore i contributi del numero speciale che ha curato, ma qui si esagera. Pincio non individua alcune coordinate fondamentali per inquadrare storicamente anche solo il "fenomeno Urania", quali l'industrializzazione ritardata della penisola, l'arrivo del consumismo in Italia, gli strascichi della II guerra mondiale; non nomina mai Primo Levi e le sue due raccolte di fantascienza; non riflette sul fatto che Urania arriva in un momento in cui il boom economico e la diffusione (anche se faticosa) della lettura creano un mercato editoriale più ampio, nel quale si va a inserire la fantascienza. Insomma, Tommaso Pincio s'è perso parecchie coordinate, per cui il suo saggio risulta non certo del tutto sballato, ma sicuramente un po' troppo parziale e superficiale. E dire che tra i partecipanti a questo numero di Nuovi Argomenti sarebbe uno di quelli meno estranei alla fantascienza, per via di tutti gli elementi fantascientifici che s'incontrano in certi suoi romanzi (Lo spazio sfinito, Cinacittà) ma anche per le traduzioni di Dick che ha pubblicato con Fanucci.
(Aggiungiamo un dettaglio che aumenta la mia perplessità: il saggetto di Pincio non è stato scritto espressamente per Nuovi Argomenti, ma risale a due anni fa, quando era stato pubblicato nel III volume dell'Atlante della letteratura italiana di Luzzatto e Pedullà edito da Einaudi. Ripubblicato senza neanche aggiornarlo, senza neanche rivederlo; scelta quanto mai opinabile.)
L'altro testo critico s'intitola Dalla fantascienza delle origini alla rassegna del planetario: Note sulla percezione della fantascienza in Italia negli anni ’60 e ’70, scritto da Gino Roncaglia. Pur essendo anche questo piuttosto smilzo, nel complesso risulta più convincente di quello di Pincio, pur non essendo esente da una serie di difettucci. Se non altro si cerca di elaborare una tesi generale su come la fantascienza arrivi tardi in Italia (idea condivisibile) e come essa arrivi simultaneamente come cinema e come letteratura; si cerca di partire da più lontano, e se la storia molto sintetica del genere può far sorridere chi abbia letto Suvin, Scholes & Kellogg, Aldiss, Luckhurst e compagnia cantante, per non parlare di McHale, teniamo pure conto che Roncaglia presenta la vicenda del genere ai lettori di Nuovi Argomenti per cui tutte queste cose sono probabilmente delle novità.
Il problema sembra però essere sempre quello di una certa parzialità (troppe cose mancano all'appello), e di una descrizione del contesto socioeconomico italiano un po' troppo lacunosa.
Manca a Roncaglia, come pure a Pincio, la percezione di come la società italiana, in uno dei suoi rari momenti di trasformazione, quello dell'industrializzasione degli anni Cinquanta e Sessanta, della costruzione delle autostrade, dell'arrivo della televisione e del consumismo, della ritardata e contraddittoria alfabetizzazione e scolarizzazione di massa, avesse bisogno di una letteratura che parlasse di immaginario scientifico.
Roncaglia poi dà molto spazio a Cozzi e alla rassegna che organizzò con Malaguti al Planetario di Roma nel 1975. Momento da non ignorare; però ce ne sono stati altri, e quello su cui si concentra il nostro pare un po' troppo locale. Quella rassegna fece parecchio per diffondere l'immaginario fantascientifico; ma Roncaglia trascura il fatto che ogni anno si teneva a Roma (al Palazzo dei Congressi) la mostra della tecnologia aerospaziale, e regolarmente durante la mostra si proiettavano film di fantascienza (nella splendida sala cinematografica del Palazzo, che poi bruciò e non venne mai più ricostruita); o che durante la Notte della Luna (e le giornate che precedettero e seguirono la pedata di Armstrong) la RAI trasmise film di fantascienza a raffica, in un momento in cui l'Italia era tutta incollata agli schermi in bianco e nero.
Insomma, anche mettendo insieme Pincio e Roncaglia, il quadro è tremendamente lacunoso. Inoltre Mazza Galanti afferma: "il punto di vista di Roncaglia... si concentra sugli anni 1975-77, considerati dallo studioso la soglia oltre la quale iniziò nella penisola la diffusione di un immaginario fantascientifico progressivamente più ricco e complesso di quello tradizionalmente legato all'esplorazione spaziale, sulla strada aperta da autori come Dick, Aldiss e Ballard". Ma non è esattamente quel che dice Roncaglia, se uno se lo va a leggere, anzi Roncaglia dichiara che dopo il 1977 quel momento di popolarità della fantascienza (come cinema più che come letteratura) andò svanendo e scemando, anche per via del riflusso. Anche queste discrepanze interne lasciano per lo meno perplessi.
Ma veniamo alle scritture creative proposte nel numero speciale.
Il primo testo è di tal Fabio Viola, e s'intitola Diva futura. Il Viola ha pubblicato due romanzi; ma, stando all'articolo della Wikipedia a lui dedicato, non è niente che abbia a che fare con la fantascienza. Il racconto non è un racconto, nel senso che sembra l'inizio di un romanzo scritto da uno Ian Watson all'italiana, ma si ferma dopo poche pagine senza una vera conclusione. Forse è veramente un frammento, perché su Nuovi Argomenti pubblicano anche parti di romanzi "in lavorazione". In questo caso però sarebbe stato opportuno dirlo chiaramente.
Ma com'è? Boh, strampalato come le cose di Ian Watson, ma senza quella sregolata e visionaria genialità che lo contraddistingue. Stilisticamente non mi ha particolarmente impressionato. Il lato gay o meglio transgender (Mazza Galanti parla di "un civettuolo salotto queer") non è che mi scandalizzi più di tanto, anzi. Diciamo anche che siamo al viaggio interplanetario, quindi uno dei temi più classici ma anche più scontati della fantascienza. E siccome il racconto è il primo che leggi nel numero di Nuovi Argomenti, uno si sarebbe aspettato un attacco più forte, qualcosa di più dirompente. Invece si ritrova con un frammento che non porta da nessuna parte, che inizia e non conclude. Strana scelta. Soprattutto le cose non stanno insieme: le stranezze che la spedizione trova su Europa non si capisce cos'abbiano a che fare col menage del narratore, che scambia messaggetti col suo partner restato sulla Terra, e con le uscite capricciose della primadonna di bordo. Ci sono cose che sembrano andare ognuna per conto suo; uno s'aspetta che più avanti si ricombinino, ma il frammento finisce subito e ti lascia appeso, coi vari temi che restano scollegati. Boh. Quanto al lato queer, e cioè omosessuale, ben altri autori gay sono passati da queste parti, e si chiamano Thomas M. Disch e Samuel Delany. Il confronto è impietoso.
La casa al mare degli Hunt è il contributo di Luca Ricci: un raccontino che sembra uscito dagli anni Cinquanta. Una coppia di robot vengono piazzati per l'appunto in una finta casa al mare, situata in realtà dentro un laboratorio dove il loro comportamento verrà spiato da alcuni scienziati (non si è capito bene a quale scopo). I due robot, MrX e MrsY erano stati "configurati con le proprietà caratterieli dei signori Hunt", una vera coppia di umani. Perché non osservare il comportamento della coppia umana in vacanza non si capisce bene. Comunque, i due robot fanno quello che ci si aspetta faccia una coppia di mezza età non particolarmente originale o brillante o anche solo simpatica. Fanno delle vacanze al mare, anche se la spiaggia non esiste (i robot credono solo di andarci ogni giorno), i vicini sono simulati (se ne sentono le voci e i rumori registrati, e ci sono anche finti odori di barbecue), e così via. Potrebbe essere un racconto alla Dick, ma Ricci non è Dick, e si vede. Il racconto non va da nessuna parte, e il finale è fiacchetto; se fossimo a scuola questo racconto sarebbe da cinque: neanche l'ebbrezza di beccarsi un bel due o tre.
La città indiscussa, di Francesco Pecoraro. Raccontino brevissimo, nel quale si spinge alle estreme conseguenze la precarizzazione del lavoro e di tutto il resto. Contratti di lavoro da un giorno, negoziati ogni mattino tra lavoratori e aziende. Monolocali con contratti di affitto per 12 ore (siccome domani non sai dove andrai a lavorare, meglio non affittare per più di una notte). Eccetera. L'idea potrebbe essere interessante: ma semplicemente non c'è trama, non c'è sviluppo, non succede niente. Si presenta questo mondo, e fine del racconto. Non si va da nessuna parte. Forse l'autore voleva rendere ancora più angoscioso il suo testo mostrando che non ci sono vie di fughe da questo incubo liberista; ma viene forte il dubbio che Pecoraro semplicemente non avesse una storia da raccontare, ma solo uno scenario da illustrare. Lo fa in modo anche ingegnoso, ma ripeto, quel che ne esce non è un racconto, ma l'inizio di un racconto che forse qualcun altro dovrà scrivere.
Qualche notiziola sull'autore trovasi qui: www.ponteallegrazie.it/scheda-autore.asp.
Il principio di Lisenberg-Tzara, di Sergio Peter. Su costui posso citare una notizia che vi interesserà sicuramente: "La Val Menaggio, Grandola, Barna, le Pianure di Loveno, il Lago di Piano e i loro abitanti… come ospiti disorientati sbarcheranno sul grande palcoscenico della Fiera Internazionale del Libro di Torino, svelati dalle pagine del primo romanzo di un giovane scrittore esordiente grandolese: Sergio Peter". Insomma l'autore è originario della provincia di Como.
Il testo racconta di come a un certo punto un nuovo tipo di "computer quantici attraversati da un flusso di fermioni" saranno in grado di scrivere letteratura, prima romanzi e racconti e poi puranco poesie. Un raccontino gradevole ma niente di più, ovviamente ironico, ma che sa di già letto (cose del genere si scrivevano già nei favolosi anni Cinquanta... e qui da noi, come faceva notare un membro del gruppo FaceBook "Romanzi di Fantascienza", quest'idea l'aveva già avuta un certo Primo Levi). Tradisce la paura del giovane scrittore esordiente grandolese che tra qualche tempo anche gli scrittori diventino ridondanti? Paura che si chiuda il mercato anche per questo mestiere?
Attaccando a leggere Abduction, il racconto di Laura Pugno, avevo grandi aspettative. La Pugno è una scrittrice di fantascienza a tutti gli effetti, anche se non ha pubblicato sulle collane e per le case editrici specializzate. Il suo Sirene è uno dei migliori romanzi brevi appartenenti al genere pubblicato negli ultimi dieci anni. Il suo racconto parte bene; continua bene; ma purtroppo si affloscia improvvisamente. Come se l'autrice se ne fosse stancata. Non ha un vero finale. Tipo, per dirla nell'idioma della Capitale, "vabbè, chiudemo qui". Sinceramente da lei non me lo aspettavo. Ma forse la lunghezza del racconto non è la sua. Il racconto non è un pezzo di romanzo tagliato per farlo diventare corto: è più facile che un buon racconto diventi un capitolo di un romanzo, che trasformare qualcosa che dovrebbe avere lunghezza da romanzo (o da romanzo breve, la dimensione tipica della Pugno) in un racconto (magari semplicemente troncando). Non si fa.
Il ventunesimo secolo, di Paolo Zardi, ci presenta decadenza urbana, squallore periferico esteso a tutto il paese, l'Italia è evidentemente andata a rotoli, tutto va a pezzi, disastro generale. Il racconto sguazza nella sfiga, in modo non proprio originalissimo, poi chiude con la scena del funerale dell'elefante che sembra un tocco tra Fellini e Ferreri. Un modo per trovare una chiusa che colpisca, nell'evidente assenza di una trama.
Ovviamente so bene che non è impossibile scrivere racconti dove non succede nulla (lo faceva spesso Ballard); ma in quel caso si compensa con l'originalità dell'ambientazione, o con una particolare ricchezza di linguaggio, o qualche altra cosa. Qui no. C'è un'ambientazione già vista tante volte, ci sono due personaggi anche quelli già incontrati, e alla fine una trovata un po' surreale. Un po' poco per tenere in piedi una storia. Che non c'è.
Domanda: perché scrivere racconti se non si ha il dono del narratore breve?
Se a quelcuno interessa approfondire, Paolo Zardi si autopresenta qui: grafemi.wordpress.com/about/
Raffica, di Antonella Lattanzi, chiude la raccolta. Una storiella senza grandi slanci. Senza conclusione, senza sostanza. Anche qui, si legge più come un frammento che come un racconto vero e proprio. A differenza di altri autori della raccolta Nuovi Argomenti, la Lattanzi non sembra avere alle spalle grandi esperienze di scrittura di qualsivoglia tipo. Una grama conclusione per una raccolta dalle poche luci e dalle molte ombre.
Però non è tutto qui; ho voluto tenere da parte i testi che – a differenza dei precedenti – mi hanno convinto.
Cominciamo da Tre gocce, di Vanni Santoni. Costui non è affatto un esordiente. Ha tutta una storia di scrittore alle spalle, e sta per esempio nel SIC (Scrittora Industriale Collettiva), il gruppo che ha scritto In territorio nemico (che, va aggiunto, non è affatto fantascienza). Santoni compare sulla Wikipedia: it.wikipedia.org/wiki/Vanni_Santoni. Il suo racconto, composto di tre frammenti, evoca un mondo di future guerre di conquista su altri mondi. Se non altro è ironico, a tratti sarcastico; se non altro è scritto bene; se non altro ha trovato un taglio originale, anche se echeggia certe cose della New Wave, tra Aldiss e Disch.
Nadja B. "Racconto romantico di fantascienza", è stato scritto da Carlo Mazza Galanti, il curatore di questo numero di Nuovi Argomenti. Per questo motivo uno inevitabilmente s'aspettava qualcosa di più, aspettativa soddisfatta solo in parte. Il racconto parla di un futuro in cui la vita è regolata dall'uso di farmaci che controllano l'umore e tutto il resto. Le donne (come la protagonista) partoriscono e i loro figli non li tengono con sé, evidentemente vengono accuditi da altri (lo stato?). Scritto discretamente bene come linguaggio, non particolarmente originale (siamo dalle parti di Huxley). Si suggerisce al lettore che la protagonista s'è innamorata del partner occasionale col quale ha concepito il figlio o la figlia che poi partorirà e non vedrà mai, ma questo non è previsto dal sistema, non c'è matrimonio, i figli non crescono coi propri genitori, ecc. Forse uno dei pochi racconti che si salvano in questa raccolta, anche se non arriva al livello di Santoni.
O di Gherardo Bortolotti. Viene qualificato su varie pagine web come autore sperimentale. Sicuramente il suo contributo, Quando arrivarono gli alieni, è nettamente superiore agli altri, e merita considerazione. Almeno Bortolotti ha il coraggio di buttarsi alla disperata in una catastrofe planetaria che non consiste tanto nell'arrivo degli alieni con la solita invasione, ma nel disastro che combiniamo noi prima. Lo stile è concitato, febbrile, senza spiegazioni, senza pause; traccia un quadro planetario (indubbiamente indebitato da un lato con Ballard, soprattutto nella prosa, dall'altro col cyberpunk e certa fantascienza della globalizzazione, non escluso Evangelisti delle ultime parti del ciclo di Eymerich). Non è una lettura semplice, Bortolotti sbatte tutto in faccia al lettore senza concedergli i rassicuranti infodump che consentono di non perdersi (però sono difficili da fare senza far scadere la narrazione a una lezioncina...), senza neanche rispettare l'ordine cronologico di quel che racconta. Non so se tutti apprezzeranno; a me questo è piaciuto, per quanto vorrei vederlo a reggere 'sto ritmo per un romanzo intero (spero che non sia così pazzo da provarci...). Ah, quanto al minaccioso sottotitolo, Parti 53-61, credo che sia un ammiccamento dell'autore, un modo per accentuare l'incompletezza del testo, il suo accennare a cose che si danno per scontate ma non si spiegano. Se poi esistono le parti da 1 a 53 e magari quelle successive a 61, sarò sorpreso ma andrò a vedere di cosa si tratta.
Dulcis in fundo, Cantiere (Ultima Estate) di Davide Orecchio. Finalmente uno scrittore che fa seguire al suo frammento una nota nella quale avverte che si tratta di un brano tratto da un romanzo in corso di scrittura. È scritto con una prosa tumultuosa e compressa, descrive il cozzo tra un'anziana donna (una storica) che sa di star per morire e la casa per le vacanze (al mare) che sta visitando tramite una tecnologia di realtà virtuale. A ciò che vede della casa e della spiaggia si mescolano freneticamente i suoi ricordi personali e le sue cognizioni storiche, in una specie di flusso di coscienza. Faticoso da seguire, ma almeno qualcosa di coraggioso ed estremista, come deve essere la fantascienza che si rispetti.
Orecchio ci sta simpatico. Nella nota che civilmente ha fatto seguire al suo frammento dice: "C'è la fragilità di un progetto; appena l'inizio di una narrazione, un episodio minimo e forse inessenziale di e-life il cui compito è presentare la protagonista e consentire l'ingresso alla sua storia, che ancora non è scritta (lo è in forma di prime e incomplete stesure). È una buona notizia, almeno per me, che del progetto resti testimonianza qui. I cantieri infatti, specialmente in Italia, non sempre mettono al mondo costruzioni finite". Un po' di sana ironia e modestia non guastano.
Orecchio ha anche un blog, come usa di questi tempi: davideorecchio.it/
Tirando le somme, è evidente, e Mazza Galanti non ne fa mistero, che il numero di Nuovi Argomenti è stato realizzato chiedendo a un gruppo di giovani e meno giovani scrittori non proprio esordienti ma neanche affermati di provare a scrivere fantascienza. Qualcuno ci è riuscito anche bene, qualcuno decisamente no. Ma aver accompagnato queste "prove d'artista" con due saggi che pretendono di presentare un quadro della fantascienza in Italia trasforma l'operazione tutto sommato sperimentale in qualcos'altro. Dà l'impressione al lettore che non conosca veramente la fantascienza italiana, che nel nostro paese si produca questo, cioè i testi raccolti da Nuovi Argomenti. Ma non è così. C'è ben altro.
Viene infine il sospetto che Mazza Galanti abbia in realtà allestito una simpatica vetrinetta per mettere sotto i riflettori un gruppo di autori di belle speranze. Un'operazione più di marketing letterario che di vera e propria riflessione critica. Un'operazione un po' furbetta, un po' italiana nel senso peggiore del termine. Peccato per l'occasione sprecata; peccato per quegli autori che hanno dimostrato di avere i numeri per scrivere fantascienza di una certa qualità e originalità. Comunque una cosa mi colpisce: che alla fine questa raccolta su una rivista prestigiosa e celebrata non sia nel complesso tanto superiore a certe raccolte nate nel ghetto, curate da appassionati, che presentavano solo scritti di narratori interni al genere. Anche in quelle raccolte di fantascienza concepite e costruite da fantascientisti il 60% non era memorabile (anzi...) e alla fine si salvavano sempre due o tre racconti sul totale. Ma sappiamo bene cosa diceva Sturgeon in merito, no?
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