"Un maestro del genere 'nero'," ha detto Corrado Augias per descrivere la statura artistica di Léo Malet. In un momento di crisi per il noir nostrano (se si escludono alcune rare eccezioni come Eraldo Baldini, le incursioni di Valerio Evangelisti e di pochi altri, gli autori italiani mancano di genuinità inventiva) l'intellighenzia italiana sta riscoprendo il noir d'autore, soprattutto quello francese, quello di Léo Malet.

Nato a Montpellier nel 1909 da una famiglia di umili origini, Malet rimase ben presto orfano; allevato dal nonno, vecchio anarchico individualista, la sua prima formazione culturale è stata tutta improntata verso la contestazione sociale/culturale. Il suo primo impiego l'ebbe presso una banca in qualità di fattorino, ma fu licenziato in tronco: la motivazione, aver diffuso il giornale anarchico L'insurgé. Si trasferisce a Parigi, un quasi esilio, vivendo la vita del vagabondo finendo anche il carcere; durante il periodo parigino sbarcò il lunario provandosi in occasionali e diversi mestieri: fece il lavabottiglie in un grande magazzino, poi riuscì ad esordire come chansonnier in un cabaret di Montmartre. Fu anche fattorino presso una ditta d'impianti idraulici. e un giorno - come ha raccontato lui stesso - mentre consegnava un bidet per un lussuoso bordello di rue Hanovre, vide nella vetrina di una libreria, quella del mitico José Corti, delle pubblicazioni che attirarono la sua attenzione: La Révolution surréaliste, riviste, libri, libri e ancora riviste, e subito rimase affascinato dalle loro strane copertine. Fu così che si procurò il Manifesto del Surrealismo; vede Un Chien andalou, il film di Bunuel Dalì, legge Lautréamont: il surrealismo gli entra ben presto nelle vene sia sotto i profilo artistico sia sotto quello politico. Decide di scrivere a Breton, il 'Papa', uno dei massimi esponenti della rivoluzione intellettuale: "Era una specie di messaggio nella bottiglia - ha raccontato Malet - se ne dicevano tante, che i surrealisti erano molto poco accoglienti, gente ricca, distante. Io, invece, Breton l'ho conosciuto anche molto povero, e soprattutto ho scoperto che non si prendeva sempre per André Breton. In ogni caso, la mia lettera gli piacque, mi chiese di mandargli ciò che scrivevo, e poi di andarlo a trovare al Café Cyrano, il famoso Cyrano di Place Blanche. Era il 12 maggio 1931."

Non fatica ad integrarsi nell'ambiente surrealista: le sue idee giovani trovano accoglienza presso gli intellettuali già formatasi o in via di formazione della scuola surrealista. La sua fede anarchica subisce un mutamento, diventa trotkista; tuttavia il suo estremo individualismo non gli permette di accettare una qualsiasi disciplina, troppo misantropo perché il comunismo potesse attecchire pienamente nella sua anima. Nel '40 è un'altra volta in prigione: l'accusa formulata è quella di 'attentato alla sicurezza interna ed esterna dello Stato' e Malet rischia l'ergastolo se non la ghigliottina. Viene liberato dopo qualche mese; tuttavia non fa a tempo ad assaporare l'aria di libertà che subito viene catturato dai nazisti e rinchiuso in un campo di concentramento, lo Stalag X2, tra Amburgo e Brema: un anno di permanenza e di stenti nel lager per Malet. Tornato in libertà perché gravemente malato, Malet si mette alla prova come autore di romanzi polizieschi: all'inizio della sua carriera si firma con degli pseudonimi 'americani', poi, nel '43, pubblicando quello che si può considerare il primo vero noir francese, 120, rue de la Gare decide di firmare con il suo vero nome i suoi lavori. Tra il '43 e il '49 escono sette inchieste di Burma: i romanzi ottengono successo e di critica e di pubblico, il loro protagonista diventa popolare quasi quanto Maigret e ben quattro attori diversi porteranno i personaggi di Malet sullo schermo cinematografico. Nel '53 Léo Malet ha un lampo di genio, ovvero ambientare ognuna delle inchieste di Burma in un diverso arrondissement di Parigi: L'idea mi venne sul ponte di Bir-Hakeim - ha raccontato -. davanti a quel paesaggio di Parigi, mi sono detto che era davvero straordinario che nessuno avesse mai pensato di fare un film su Parigi, a parte Louis feuillade. Ho avuto l'idea confusa di romanzi polizieschi che si svolgessero ognuno in un diverso quartiere. Tra il '54 e il '59 escono quattordici romanzi firmati Léo Malet; nel '48, Malet pubblica il primo volume della sua trilogia noir: La vie est déguelasse, seguono Le soleil n'est pas pour nous e Sueur aux tripes. Con la trilogia noir Malet è ormai un punto di riferimento per molti intellettuali francesi, europei, americani: i tre romanzi pregni di crudezza, ferocia, indagano la psicologia umana, l'anima criminosa che si nasconde in ogni uomo.

Il sole non è per noi è un libro crudo che parla di poveri cristi, di vagabondi: per Malet il delitto nasce dal destino, ovvero se uno nasce povero, povero morirà e non potrà sfuggire a quanto il fato gli ha serbato. I personaggi di Malet sono incapaci di risollevarsi dalla loro triste condizione: sono consapevoli del fatto che per loro non ci sarà possibilità alcuna di riscatto sociale, e questa ineluttabilità la sentono scorrere nelle vene come una colpa.

Ne Il sole non è per noi Malet descrive il delitto come un accadimento puramente antropologico, esistenziale; il personaggio del romanzo, un povero artista sedicenne tenta indarno di farsi strada nella Parigi dorata, ma i suoi schizzi vengono pressoché ignorati da tutti, e alla fine si risolve nel non tentare neanche più di venderli o anche solo di proporli al pubblico. E' chiaro per lui che è un disgraziato, che il sole che i suoi occhi vedono è un sole povero così come la sua vita. Arrestato per vagabondaggio, dopo due mesi passati in cella viene rilasciato: fa amicizia con avventori di tristi e squallidi bar, si tira dietro un amico di sventura penitenziaria, è evidente che la sua vita è destinata a concludersi tra le strade povere di Parigi. Per quanto si adoperi Parigi non è capace di offrire un sole splendente alla sua umanità, non è in grado di dar lavoro ad un vagabondo.

Finalmente qualcosa sembra cambiare in meglio: in un caffè incontra uno strano tipo che gli offre di andare a lavorare in fabbrica, e il protagonista non può fare a meno di accettare. Tuttavia, una volta in fabbrica, si rende conto di essere diverso: è guardato con sospetto e ben presto si diffonde la voce in fabbrica che il licenziamento per gli 'scansafatiche' è ormai cosa prossima. Per evitare il licenziamento finge di infortunarsi: grazie ad un amico anarchico gli riesce di truffare l'assicurazione e restarsene a zonzo per le strade per buone tre settimane. E durante questo periodo, per così dire, di riposo, il giovane finisce con l'incontrare alcuni buffi tipi di strada, ragazzacci come lui, forse peggiori di lui. Diventa presto loro amico e finisce con l'innamorarsi della sorella di uno dei suoi nuovi amici; tutto sembra filare per il meglio, ma il 'sole non è per lui'. Gina si dimostra subito accogliente e il giovane fra le sue braccia trova l'illusione della felicità; Gina condivide la casa con il fratello e la madre, una vecchia ubriacona.

Il giovane protagonista intanto si dà da fare per scoprire quale segreto nasconde il fratello di Gina, il suo amico: incesto, Gina e suo fratello vanno a letto insieme. Accecato dall'odio, un odio razzista, gonfia di botte l'amico e stabilisce che Gina è sua proprietà. Il fratello di Gina sembra accettare la cosa, ma la vendetta è in agguato: alla prima occasione questi vende la sorella ad un arabo... Richiamato dalle urla di Gina, il giovane fa appena in tempo ad evitare che l'Arabo possa godere delle grazie di Gina: accecato dalla rabbia, dallo schifo che prova, con rapidi colpi di rasoio trucida l'Arabo e quando si rende conto di quello che ha fatto non ha paura, anzi si getta contro il fratello di Gina e lo sgozza senza pietà. Insieme a Gina scappa da Parigi; intanto la polizia parigina si è accanita contro il giovane accusandolo di un largo numero di delitti che si sono consumati nei quartieri poveri di Parigi.

Gina è incinta: aspetta un figlio dal fratello, sta male. Arrivati in prossimità di una fattoria, sono costretti a cercare riparo; un vecchio bavoso accetta di dargli un tetto... Gli eventi si corrompono: il vecchio bavoso tenta di mettere le mani addosso a Gina, o questo è almeno quanto immagina il giovane innamorato... si scatena l'inferno, il fuoco divora la fattoria e il vecchio muore nel rogo... Insieme a Gina fugge nel bosco e nel bosco Gina abortisce e muore dissanguata. Al giovane disperato non restano vie di fuga: ormai è deciso a consegnarsi alla polizia. E una volta in mano della giustizia viene accusato di aver appiccato il fuoco nella fattoria per rubare i soldi del fattore, di aver ucciso Gina la sua amante, di aver ucciso il fratello di Gina e un Arabo... In un primo momento il giovane tenta blandamente di difendersi, ma poi comprende che tanto qualsiasi difesa sarebbe inutile. Aveva cercato solo di vivere, o meglio di sopravvivere, ma il sole non è per quelli come lui. La giustizia fa il suo corso implacabile.

Léo Malet per questo romanzo fu accusato di razzismo, ma all'artista premeva solo di dimostrare 'artisticamente' che al destino non si può sfuggire e l'unico mezzo che aveva per ottenere una efficace dimostrazione era parlare senza mezzi termini. Oggi nessuno, o quasi, crede veramente che Malet sia stato un razzista/fascista; riabilitato e dalla critica e dal pubblico, i suoi romanzi neri sono al centro di una rinnovata attenzione critica, una attenzione critica severa ma giusta, non quella degli anni Quaranta/Cinquanta che vedevano in Malet una meteora degna solo di disprezzo e vergogna.