Immaginate che un extraterrestre alla Ziggy Stardust cada sulla Terra negli anni Sessanta. Supponete che non imbracci una chitarra ma faccia assoli di matita e china. Figuratevelo bello ed efebico, provocatorio ma gentile, crudo e poetico insieme, siderale e realistico. Rendetelo profondo e colorato e, come se non bastasse, ricco di humour.
Vi state facendo un’idea del visitatore alieno chiamato Vaughn Bodé.
Il 18 luglio 1975, a soli 34 anni, Bodè abbandonava questo pianeta in circostanze ammantate di mistero e scandalo, cristallizzando per sempre la sua immagine angelica in un Olimpo da rock star. Nel corso della sua parabola artistica, intanto, lasciava un generoso contributo di lavori dallo stile originale e innovativo, destinato a sconfinare dalla ristretta cerchia dell’underground per influenzare il mondo del fumetto, dell’animazione e dei graffiti. Sembra ovvio quindi che il suo nome appaia con gente del calibro di Hal Foster e Lee Falk nel prestigioso Will Eisner Award Hall of Fame, albo d’oro in cui approderà nel 2006 insieme al Disneyano Floyd Gottfredson e Russ Manning, due monumenti dei comics non proprio noti per la carica trasgressiva.
In ogni modo, il bello di Vaughn Bodé è anche questo, la trasversalità che gli ha permesso di scavalcare limiti e classificazioni grazie a una scrittura apprezzata da pubblici di varie età.
Lo illustra bene l’incontro avvenuto nel 1974 tra il giovane cartoonist con l’autore di Buz Sawyer, l’ultrasettantenne Roy Crane, impegnati in un dialogo tra mondi culturalmente lontani dove la cravatta dell’uno socializzava amabilmente con l’ombretto, le collane e le unghie dipinte dell’altro.
Merito di naturali doti comunicative, unite alla freschezza di un segno grottesco e decorativo, utilizzato con estrema libertà su impaginati concepiti come un organismo unico, un blocco in cui i testi dal linguaggio ricco di slang convivono con le onomatopee e le immagini. Qualcosa che in termini di scioltezza grafica trova un omologo solo nei fumetti della nostrana Grazia Nidasio, impegnata su tutt’altro fronte narrativo con le storie familiari delle adolescenti Violante o Valentina Mela Verde.
Il debutto di Bodè nel fumetto origina con una serie auto-pubblicata nel 1963, Das kampf, derivata da un’esperienza (immaginiamo poco esaltante) nelle file dell’esercito. Con un centinaio di vignette autoconclusive il disegnatore fa una satira feroce dell’assurdità guerresca, utilizzando come modello la celebre raccolta di Charles Schulz Happiness is a Warm Puppy.
Attraverso lo schema “La Guerra è…” al posto de “L’Amore è…”, Bodè si fa il portavoce del dissenso della gioventù americana cresciuta all’ombra della guerra fredda.
La sua storia seguente vede per la prima volta protagonista una lucertola, The masked lizard, che appare nello stesso anno sulla rivista universitaria Sword of Damocles, precedendo i rettili umanoidi tipici della successiva produzione e anticipa l’apparizione del suo popolare personaggio Cheech Wizard.
Per metà coperto da un cappello a punta di mago da cui spuntano un paio di buffe gambette, Cheech Wizard occupa le pagine del National Lampoon con le sue sentenze sgangherate e deraglianti da guru hippy, tavole destinate a riproporsi dal 1967 a oggi in numerose riedizioni fino alle raccolte della Fantagraphics degli anni Novanta.
Il mondo folle di questo personaggio è popolato da lucertole bipedi, animali intelligenti e morbidissime femmine umane, uno scenario in cui il mago dal volto invisibile si dedica alle sue attività peculiari: andare a caccia di birra, feste, droghe e belle donne (alla faccia di Diogene). Una filosofia di vita che nel tempo gli ha dato lustro e proseliti, facendolo rivivere anche nei murales e graffiti metropolitani di tutto il mondo.
Detto ciò, è da precisare che l’opera di un autore come Bodé non sia da circoscriversi in un fuoco d’artificio goliardico e adolescenziale, fatto di slang e provocazioni tipiche della stagione della controcultura degli anni Sessanta e Settanta. Il lavoro del disegnatore di Utica è assai più articolato e sfaccettato, con un lirismo molto personale che lo smarca da colleghi come Gilbert Shelton e i suoi pur divertentissimi Freak Brothers, o dall’immaginifico Robert Crumb del periodo underground, assai più acido e disincantato.
Dal principio 1967 si sviluppa la relazione tra Bodè e la SF, esprimendosi attraverso una fitta messe di illustrazioni che trovano spazio anche su copertine di riviste come IF o Galaxy, e un anno dopo nella copertina e le illustrazioni interne del romanzo Space Chantey di Raphael Lafferty, in una combinazione sulfurea quanto indovinata.
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