Le flebo gli annacquavano il sangue e sciacquavano le vene di veleni inefficaci, i monitor impolverati delle macchine sul soffitto gli illuminavano il viso grigio di referti incoerenti. Gli unici vocaboli plausibili nelle cartelle che pencolavano a piè del letto, di tutti i letti del dormitorio, o lazzaretto piuttosto, erano affetto da sindrome sconosciuta.Immobile sul materasso annerito, l’imbottitura puzzolente di bruciato e le lenzuola già fradice mezz’ora dopo il cambio, Talib si univa al lamento degli ammalati che latravano alle infermiere di accendere l’olovisore, sintonizzarsi su CosmoSport per la diretta di Salto in Orbita:- Muovetevi, che è tardi perdio! -
Una capsula di smeraldo fluttuò nel salone: la navicella della Teva Pharmaceutical, blasonata della Coppa 2053, si allineò fra i concorrenti sulla linea di partenza.
Aprì il portellone.
Samia Ha Kodesh luminosa di luce propria, l’atleta imbattibile di Laâyoune-Boujdour, si sporse in tuta verde dall’abitacolo e sciolse i ricci neri nel gelo dello spazio. Sorrise dietro la maschera trasparente, abbracciò nove miliardi di spettatori che credettero in quell’istante in un destino per l’umanità. Pattinò su quelle fila di moribondi che la acclamarono in un coro di rantoli:
- … e un saluto particolare a mio fratello Talib! -, squillò con voce d’arpa nel microfono.
I malati la applaudirono con il tinnito delle unghie sullo zinco raggelato delle reti dei letti; lui tossì commosso, la fiamma gli arse l’anima.
Saltano!, gridarono i cronisti.
Talib chiuse gli occhi, tutto divenne bianco, smise di respirare; bruciò di felicità.
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