Sopportò la paura, il ribrezzo, la rabbia; disarmò la scacciacani e la rimise al dottore:- Voi non mi avete visto, stanotte: sta bene? -; il medico e l’assistente restarono interdetti.Lui zoppicò, fuori dall’infermeria, fino ai discensori per gli hangar degli hovercraft, un quarto d’ora dopo guidava nel deserto. Stornò dalle piste, accelerò per le scorciatoie proibite che tutti, nella centrale, conoscevano e praticavano: sveltivano le consegne, favorivano il contrabbando; oppure, Talib inghiottì le lacrime, garantivano a due ragazzi un angolo d’intimità.
- Cos’hanno fatto -, continuava a tormentarsi, - oltre a sgarrare al regolamento sugli aeroscafi? Cosa volevano da loro quegli agenti della Teva? Nel momento più emozionante che si possa immaginare: incontrare dal vero Yael Ophanim! Cosa c’è fra quelle palme che non ci dicono? -
Inchiodò nella fanghiglia ai margini dell’oasi, trovò una torcia elettrica nella cassetta degli utensili, scelse dalla medesima la chiave inglese per arma e smontò dal veicolo.
S’inoltrò fra le palme.
Seguì la traccia di cespugli guastati, di alberi piegati, di foglie spezzate; schiarì con la torcia i sassi smossi dall’incidente e riconobbe nella polvere le tracce dell’hovercraft.
A un passo dall’impronta dei cuscinetti, come disse Samia, il terreno era segnato dalla caduta dell’Ophanim: uno scorcio sulle stelle fra le cime delle palme; ma soprattutto, Talib si stupì, un cerchio scolpito di sabbia vetrificata che alla luce della torcia scintillava di oro vivo. Il cerchio comprendeva una stella a sette punte che chiudeva un pentacolo in una gabbia di esagoni; ogni lato delle figure era percorso di lettere. Parole in ebraico che Talib non seppe leggere: riconobbe quell’astruso alfabeto dalle scritte sulle capsule Teva; sulle tute dell’Ophanim che aveva visto in olovisione:
- …Gesù!... -
Nel gelo della notte il disegno fumava; lui non resistette all’impulso di toccarlo, si chinò sul tracciato: subito ritrasse i polpastrelli ustionati dall’eptagono scintillante sulla sabbia cristallizzata.
Stolzò: qualcosa di rigido gli puntò fra le scapole:
- Getta la torcia elettrica. Mani dietro la nuca. Alzati. Lentamente. Voltati, adesso. -
Talib obbedì. Si trovò sotto tiro di cinque Tavor TAV-25 imbracciati da uomini in uniforme isolante, occhiali infrarossi e logo della Teva su una giubba antiproiettile. Gli premettero i fucili contro le reni e le tempie, lo perquisirono; lo spintonarono fin nel folto dell’oasi su un autotreno mimetizzato. Digitarono una sequenza alfanumerica su un portello sul retro del veicolo, che si aprì su una guardiola dalle pareti d’acciaio:
- Non ho fatto niente -, Talib protestò, - non potete trattenermi; cosa siete, vigilantes? L’oasi è compresa nell’area della centrale: conosco i miei diritti, e voi non ne avete; piuttosto è la vostra ditta, che dovrebbe spiegarsi. -
Gli uomini restarono in ostinato silenzio, il jingle di un citofono spezzò la tensione. Quello che a Talib sembrò essere il capo squadra scambiò all’apparecchio qualche frase in ebraico; lui ascoltò la voce fiacca dall’altra parte e riconobbe il tono odioso del vecchio dell’elicottero.
Fremette: i sorveglianti lo calmarono con il clac dei colpi in canna.
Il capo, interrotto lo scambio, sfiorò una consolle su un’altra porta della guardiola, lo invitò con un cenno nel locale di là da quella.
Lui varcò la soglia riluttante, si trovò in una cabina arredata: Yael Ophanim, in bikini invisibile, con la pelle e le trecce bionde bagnate come forse appena uscita dalla doccia, lo accolse luminosa e gli strinse la mano:
- Talib, come va? Si accomodi, prego; si versi da bere -, e quasi lo ribaltò, sfiorandolo appena, su un pouf di seta verde vicino un frigo bar.
- L’ho toccata, è reale -, Talib sbigottì, - non è un ologramma! -
L’atleta rise forte, scivolò dietro una tenda: dal velo ne trasparirono le forme, quasi che una fiaccola le ardesse alle spalle. Il reggiseno, lo slip del costume volarono appallottolati sopra le stecche della cortina:
- Le è piaciuta la finale, Talib? Atterraggio da brividi! Mi hanno detto che era presente: memorabile, vero? Che spavento ci siamo presi! -
Lui non riusciva a stornare dalla sua ombra, non batteva le palpebre, gli bruciavano gli occhi: ascoltava quell’idiota, banale cinguettio che pure, si accorse, gli ottundeva la mente:
- Che cosa mi succede? -, rabbrividì.
Yael riapparve da dietro il paravento in shorts e camicetta sbottonata fino al petto, i riccioli dorati le ruscellavano sulle spalle. Talib fu ottenebrato dalla libidine e l’estasi; lo stomaco, però, gli bollì dalla nausea: quella voce di violoncello, dall’accento israeliano, gli crivellava il cervello e gli impediva i pensieri:
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