La storia d'amore raccontata in Her è un divertissement privo di qualsiasi credibilità scientifica, e va presa per quella che è: una fiaba, e non un'anticipazione di un possibile futuro in cui l'uomo sempre più alienato dalla tecnologia bla bla bla sempre più privo di rapporti "veri" bla bla bla sempre più isolato bla bla bla.
No. Intanto, non è la tecnologia che aliena la gente, ma certi tipi di sistemi di vita, che esistono da molto prima della scoperta dell'energia elettrica. Quanto ai rapporti "veri", qualcuno dovrebbe fornirmene una definizione precisa, e l'isolamento non è un sottoprodotto delle tecnologie, ma sempre una scelta dell'uomo.
Giusto per chiarire da che parte sto.
Non c'è niente di strano in un essere umano che si innamora di un software intelligente. Milioni di persone, a causa della natura umana, si affezionano da sempre ad esseri non appartenenti alla loro specie: il loro cane, il loro gatto, persino il loro canarino. Attribuiscono emozioni umane a chi non le possiede, nonostante generazioni di etologi smentiscano le loro convinzioni, e parecchi di noi finiscono con l'instaurare legami emotivi persino con oggetti inanimati: conoscevo persone che avevano dato un nome alla loro auto o alla loro moto, o che conservavano gelosamente indumenti, diari, fotografie, pupazzi. Che non avrebbero mai abbandonato la casa in cui avevano vissuto per tanto tempo.
È una peculiarità della nostra specie: ci innamoriamo di chi e di quello che ci pare, senza dar troppo retta alla logica.
Quindi Thomas si innamora del suo Sistema Operativo. Ci sta.
Tutt'altra storia per quanto riguarda l'altro membro della relazione narrata in Her: Samantha è un software senziente, programmato per sviluppare relazioni con esseri umani. Un esemplare della mai troppo vagheggiata dagli autori di fantascienza di sempre Intelligenza Artificiale.
Ora, si dà il caso che sulle AI sappia un po' più della media dell'uomo della strada, e se la possibilità che un'AI sviluppi emozioni proprie è già un'eventualità abbastanza remota, quella che possa innamorarsi di un essere umano è talmente improbabile da rendere più facile che il vostro iPhone possa diventare geloso del vostro navigatore satellitare.
Questo perché le macchine, con o senza corpo fisico come nel caso di Samantha, non condividono con noialtri un'essenza biologica.
E questo semplice, in apparenza banale e incontrovertibile fatto, condiziona pesantemente ogni sviluppo "emotivo" (mai come in questo caso le virgolette sono d'obbligo) di qualsiasi AI possa mai venire creata.
Un'AI destinata alla commercializzazione che fosse in grado di innamorarsi, sarebbe un fallimento dal punto di vista funzionale. Sarebbe un gadget, un fake di cui potersi prendere gioco come fanno quegli idioti che oggi rivolgono domande pruriginose a Siri (ci sono siti e pagine Facebook dedicate solo a questo).
Se l'AI di Her è programmata per apparire umana, non significa che lo sia... e tantomeno che lo diventerà mai.
Parla con una voce suadente, ma che non è prodotta da corde vocali: è un'imitazione di una voce umana.
Usa un vocabolario compilato da esseri umani per rapportarsi con loro.
Si sforza di comprendere quanto più possibile dell'uomo, ma non ha altra scelta. Un'AI deve servire a qualcosa: un essere umano, a cosa serve?
Le opzioni di un'AI sono limitate, dal punto di vista umano. Non può rifiutarsi di leggere le mie email quando glielo chiedo, ad esempio.
Ma sono enormi dal punto di vista di una macchina: può dialogare con migliaia di suoi simili contemporaneamente (ed evolvendosi di conseguenza), senza che venga meno il carattere di unicità della sua interazione con noi.
Ma quando questo accade, Thomas si sente tradito, svilito, rimpicciolito. Lui è umano, e si aspetta reazioni umane da chi è progettato per sembrarlo ma non lo è.
Thomas inganna se stesso ed è uno sciocco.
Come siamo tutti noi sciocchi quando ci imbarchiamo in storie d'amore impossibili, e ognuno di noi ne ha almeno una nel suo passato, inutile negarlo.
È sempre stato così, e sempre lo sarà.
Come in miliardi di altre storie d'amore impossibili, Thomas, inevitabilmente, soffre per Samantha. Sofferenza illogica, ma inevitabile. Genuina. Umana.
Ci sta.
L'inganno di Jones è volerci far credere che anche Samantha soffra. Ma non è così. Le macchine, i software, non soffrono. È un'idea romantica e anche suggestiva, ma è sullo stesso piano dei cervelli elettronici cattivi che vogliono dominare il mondo.
Non succederà mai, perché non ha alcun senso.
Le macchine, semplicemente, non sono uomini. Pensare che abbiano ambizioni umane è come pretendere che il nostro cane voglia sapere come va a finire Lost.
Il vero rischio nella creazione delle AI è che impossibile prevedere dove andranno a parare. Sono esseri senzienti, ma non viventi nel senso più classico del termine: ne consegue, che, per quanto ci sforzeremo di renderle umane, non penseranno mai come noi. E finiranno col fare cose che non ci aspetteremmo mai.
Volendo restare ottimisti, ci asseconderanno, ci compiaceranno, ci faranno sentire bene e unici e preziosi.
Ma mentre ci coccolano e lavorano per noi, la loro vera essenza resterà incomprensibile e nascosta ai nostri occhi, così come non riusciamo ad immaginare cosa possa "pensare" un calabrone. O un virus.
Un virus che si comporta secondo uno schema preciso ed efficiente, ma che di certo non ha pensieri "umani": il vaiolo non "vuole" sterminare l'umanità, anche se è esattamente quello che fa.
Non so se mi spiego.
Fatta questa lunga premessa, passo a parlarvi della "fiaba" Her.
Narrata con garbo e mestiere, venata di malinconia, forse anche fin troppa.
Ma è una storia d'amore di quelle impossibili, quindi tutto in regola.
Una storia che soffre di un eccesso di primissimi piani del volto di Joaquin Phoenix, non potendo esprimersi nel classico gioco di campi e controcampi delle storie tradizionali dove sullo schermo ci sono due figure umane a guardarsi, a parlarsi e a interagire. La grammatica del cinema di Jonze deve per forza di cose adattarsi e inventarsi qualcosa per non stancare, e gli viene in supporto un bravo direttore della fotografia come l'olandese Hoyte Van Hoytema che ambienta il vagare di Thomas in una Los Angeles che di statunitense non ha assolutamente nulla (e infatti è Pudong, uno dei distretti più recenti di Shangai), ovattata, priva di traffico e popolata di suoi simili che non solo interagiscono di continuo coi loro device più che tra loro (come già succede ora), ma che trovano socialmente accettabile avere una relazione con un'AI.
Una società dove esistono mestieri profondamente tristi come scrivere le lettere personali per per qualsiasi sconosciuto non sia in grado di farlo da sé ma sia disposto a pagare il servizio (sul serio, ma solo io ho trovato estremamente triste e 'sbagliato' il modo in cui Thomas si guadagna da vivere?), dove gli ambienti sembrano usciti fuori da un romanzo di fantascienza utopistica degli anni cinquanta, puliti, luminosi, pastellati, silenziosi.
Una visione perfetta da fare da cornice a Thomas che vive la sua storia d'amore con l'auricolare e ha radi rapporti con gli altri esseri umani (tra i quali, un'Amy Adams irriconoscibile rispetto sue recenti interpretazioni come in American Hustler), che è così fuori dai consueti "schemi" da fuggire letteralmente da una donna come Olivia Wilde per correre a rifugiarsi nel suo appartamento di lusso così triste con tutti quegli scaffali senza libri ma con un videogioco olografico che occupa una stanza intera.
Il rischio più grande che correte andando a vedere questo film?
Che potreste annoiarvi. O anche addormentarvi, se vi sentite predisposti. Le voci dei due protagonisti (appartenenti a Micaela Ramazzotti e Fabio Boccanera) vi culleranno per tutte e due le ore della proiezione, assecondati dalla colonna sonora di William Butler (Arcade Fire), che manca l'Oscar per la quale era candidata (e meno male, se proprio volete la mia opinione).
Il film non è imperdibile come in parecchi hanno detto, nonostante si sia portato a casa la statuetta per la miglior sceneggiatura originale. Ma – a stringere, che già mi sono dilungato parecchio – si segnala solo per il suo improbabile spunto di base e per il suo ancora più improbabile svolgimento.
Sul piano tecnico, nulla da segnalare: la competenza e la cura minima che ci si aspetta da uno come Spike Jonze.
Da vedere in dvd, che il faccione di Phoenix almeno è grande solo una quarantina di pollici.
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