Iris a quelle considerazioni rabbrividì.— Un conto è sapere il processo generale con cui si muove il sistema governativo per la duplicazione dell’essere umano — proseguì Libero, — un altro è vederlo. Solo allora capisci la perversione che sta dietro alla logica della società nuovissima. I cloni devono essere tutti di sesso maschile indipendentemente da quello primario. Nel caso coincida si tratta di clonazione classica, altrimenti di clonazione anomala. — Scosse la testa più volte come per allontanare quell’insana realtà.
— Ripensaci Iris, potrebbe avere ripercussioni negative vederlo. — Amos le stava parlando come un padre.
— Sono convinta che ne avrebbe di più se non lo facessi. — La testardaggine non l’abbandonava mai. Chissà se era così anche per la sua copia.
— Non sappiamo quale potrebbe essere la sua reazione — ragionò Libero. — Ha vissuto in un mondo di soli maschi tutti rasati, per renderli il più possibile simili. Per appiattirli. Non ha mai visto una donna, potrebbe avere una reazione difficile da gestire.
Iris non voleva demordere. — È dentro alla capsula, non può scappare e non credo possa urlare così forte da metterci in pericolo. Sarà ancora intontito dall’anestesia per l’operazione, non avrà molte forze. — Scrutò le prime luci oltre la lastra di grafene. — A breve arriverà il passatore topologico 1 e lo porterà via — si fermò e respirò a fondo, — insieme a Dalila per dargli la morte. Lasciate che conosca chi ha amato la persona da cui deriva. In fondo è come se lo amassi, come se anche lui mi amasse.
Libero e Amos annuirono e si diressero alla stanza di transizione, dove era stato depositato la capsula del clone a fianco di quella di Dalila.
Li seguì e senza accorgersene si sfiorò il ventre, il luogo e il simbolo della ribellione, dove sarebbe cresciuto dopo centinaia di anni il primo figlio non marchiato. Il primo essere vivente non nato da un rapporto controllato dal governo. Non nato da una relazione sessuale finalizzata alla procreazione approvata dal sistema della nuova società. Il primo essere senza la copia.
Un ricordo la trafisse, una scheggia improvvisa che penetra in profondità: l'incontro con Dalila. Era un giorno privo di sole, dove il grigio sembrava perenne e l'acqua che scendeva dal cielo era un tutt'uno col mare. Nei viadotti pedonali, che collegano gli acini della metropoli, risuonava in filo diffusione il consiglio per una corretta e giusta vita. Iris era sulla pedana di trasferimento centrale, direzione est quota 490 metri sul livello del mare. “Essere attivi, per non invecchiare” continuava a ripetere la voce della propaganda. “Essere attivi per non pensare”, fece eco una voce. Iris alzò lo sguardo e incrociò gli occhi della ragazza davanti che, ferma col busto, aveva girato la testa quel tanto che bastava per guardarla. Rideva, sottolineando con un gesto la situazione: sette file di persone ferme su altrettanti tapis roulant. Iris arrossì e piegò le labbra in un sorriso. Mi chiamo Dalila, le disse.
Dalila la chiamava “Bella, ciao” e quando consumarono la passione su un campo di papaveri, le disse che era il titolo di un vecchio canto popolare. Gliela cantò, poi cantarono e parlarono di ribellione. “Bisogna saper usare i perché, non basta averli” le ripeteva sempre Dalila. “I cloni non conoscono le domande, e noi non sappiamo farle. Siamo più ciechi di loro”, continuava con ardore. E poi facevano sesso e anche l'amore, nascoste all'ombra dei petali rossi.
Gli stessi petali rossi che Iris aveva posato sulla capsula di Dalila.
Non aveva pensato che cosa avrebbe detto al clone anomalo della sua amata, ma scoprì che le parole non le sarebbero mancate.
Quando si aprì il portello.
Quando vide la bellezza dell’essere che la studiava.
Quando riconobbe nel suo sguardo lo stesso piglio audace di Dalila.
Quando percepì un bagliore di serenità nelle sue iridi, come di una persona che riconosce un affetto caro. Allora le uscirono senza inciampi. — Sono Iris. Vi ho sempre amati, tu e Dalila, e sarete i padri della rivoluzione. Del figlio che sarà rivoluzione.
Del figlio dispari.
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