Si potrebbe cominciare col discutere se Gravity sia o meno un film di fantascienza. Per rientrare nel genere basta che una storia sia ambientata nel cosmo, ci siano navette spaziali, stazioni orbitanti e avventure di esseri umani nello spazio? No, Apollo 13 aveva questi elementi ma non è un film di fantascienza in quanto ricostruiva fatti realmente accaduti nel 1970. Lo si potrebbe catalogare come dramma spaziale, un sottogenere già esistente sin dal 1969, quando la Columbia Pictures produsse Abbandonati nello spazio con un cast che comprendeva Gregory Peck e Gene Hackman. Ma in fin dei conti Gravity è un film di fantascienza in quanto immagina un possibile futuro, per quanto ravvinato, nel quale il problema dei detriti spaziali (peraltro reale) cominci a diventare un vero e proprio clear and present danger.
Nel copione scritto dal regista e produttore messicano Alfonso Cuarón a quattro mani col figlio Jonás le persone sono gli astronauti partecipanti a una missione di manutenzione al telescopio orbitante Hubble. Tra loro la dottoressa Ryan Stone (Sandra Bullock) e il navigato astronauta Matt Kowalski (George Clooney). La distruzione da parte dei russi di un loro vecchio satellite crea una nuvola di detriti fuori controllo che a loro volta innescano una reazione a catena dalle drammatiche conseguenze. Il veicolo che avrebbe permesso al team di rientare alla Stazione Spaziale Internazionale viene distrutto e i due si trovano alla deriva nello spazio cercando di trovare un modo per salvarsi la vita nell’ambiente ostile del vuoto cosmico…
Gravity è un film teso e coinvolgente, magistralmente diretto, pieno di prelibatezze tecniche e di regia, come il passaggio dalla ripresa oggettiva a quella in soggettiva senza ricorrere (apparentemente) a tagli di montaggio. Questa recensione si riferisce a una visione 3D in una sala Imax, quindi condizioni ottimali per gustarsi le raffinatezze visive che il regista, con la determinante collaborazione del suo Direttore della fotografia di fiducia Emmanuel Lubetzki, ha studiato durante una preparazione durata oltre quattro anni. Il risultato è di strabiliante realismo, quanto di più vicino al trovarsi davvero nello spazio sia oggi possibile per la maggior parte di noi che guardiamo con ammirazione a Luca Parmitano, il nostro orgoglio nazionale in orbita proprio in questi mesi. La storia è semplice e lineare, una sfida alla sopravvivenza in un ambiente ostile, che puo’ anche essere letta come metafora del progressivo isolamento di una persona che, a seguito di un dramma personale, ha interrotto le comunicazioni col resto del mondo e deve in qualche modo ‘rinascere’ per poter riprendere il proprio cammino di vita.
Per i due attori protagonisti un vero e proprio tour de force, specialmente per Sandra Bullock che è nota soprattutto per i ruoli in commedie brillanti (recentemente Corpi da reato) pur avendo già vinto un premio Oscar nel 2009 per The Blind Side, dramma ambientato nel mondo del football uscito da noi direttamente in home video. Qui anche se la vicenda si srotola (va letteralmente a rotoli) in un ambiente senza peso Bullock regge sulle sue spalle una buona fetta del peso della riuscita del film, essendo per la maggior parte del tempo da sola sullo schermo. È la sua solitudine, anche esistenziale vista la perdita della figlia piccola, a rendere il suo personaggio così vulnerabile ma al tempo stesso determinato a fare quanto umanamente possibile per cercare di farcela, pur nella consapevolezza della fine obbligata per tutti noi. Clooney le fa da spalla come perfetto comprimario, aggiungendo un altro tassello a una mirabile carriera fatta di scelte oculate quanto insolite, fantascienza compresa (il remake di Solaris di Soderbergh e, prossimamente, Tomorrowland).
Cuarón, che da bambino sognava di fare l’astronauta, dopo essersi cimentato nel fantasy seriale (Harry Potter e il prigioniero di Azkaban, 2004) e nel futuro distopico (I figli degli uomini, 2006) si tuffa nello spazio realizzando un dramma spaziale scientificamente attendibile, a parte qualche piccola inesattezza scientifica riconosciuta ma sacrificata per esigenze drammaturgiche. Il grande successo di Gravity al box office USA (3 settimane al primo posto, ben al di sopra delle aspettative) lo ha catapultato nella lista dei registi di serie A, aggiungendo il suo nome a quello della crescente lista di eccellenti autori che operano nell’industria cinematografica americana pur non essendo statunitensi, come l’inglese Ridley Scott, il canadese James Cameron, il neozelandese Peter Jackson, il taiwanese Ang Lee, senza naturalmente dimenticare l’altro messicano Guillermo del Toro.
Impossibile non accennare almeno al fantastico lavoro compiuto dal supervisore effetti speciali Tim Webber (Il cavaliere oscuro e Avatar nel suo curriculum) e i suoi collaboratori alla Framestore, la compagnia responsabile per la maggior parte degli effetti visivi, davvero difficile pensare che non abbiano già l’Oscar in mano. Ma Gravity si candida ad essere un serio contendente anche per quanto riguarda le categorie principali, quelle per miglior film, regia e attrice protagonista.
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