Dietro al banco della reception, trovai ad accogliermi una venere bionda dal fisico scolpito di nome Helga, come recitava il cartellino appuntato sulla divisa. Le maniere accattivanti e la presenza da schianto, complice l’euforia legata alla trasferta, la proiettavano di diritto tra le elette del mio Olimpo femminile.Cercai di darmi una calmata. Con una sventola del genere, le mie possibilità di invitarla a cena si collocavano tra lo zero e l’uno per cento. E poi, dov’erano finiti i propositi fatti prima di partire? Meglio soprassedere.Adempiute le procedure per ottenere la chiave della stanza raggiunsi l’ascensore e salii al terzo piano. Percorsi il corridoio che costeggiava la sala colazioni, notando gli inconsueti arredi che non avrebbe sfigurato nella residenza di un lord: ovunque, spiccavano antiche armi da taglio sui cupi pannelli di rovere.

Perplesso, dietro a una svolta, rintracciai il mio numero di stanza. Appoggiai il trolley e gettai un’occhiata intorno.

Non vi erano altre camere accanto e lo considerai un bene. Avrei dormito sereno: niente discussioni al telefono o film fino a tarda notte. Un’autentica fortuna.

Non disfai nemmeno i bagagli. Diedi una sbirciatina dalla finestra sul cortile interno, chiuso su tre lati dall’albergo dove mi trovavo, e per la parte rimanente da una collina. Un’enorme pianta di glicine, da cui scendeva una cascata di grappoli lilla, abbracciava metri e metri di cornicione, in una tenace spirale. L’indomani, mi sarei dovuto complimentare con Patrizia per la sistemazione: sarebbe stata perfetta per un weekend romantico. Peccato che fossi solo.

Scesi nella hall, consegnai la chiave, e mi tuffai nel vortice chiassoso e colorato della città; la temperatura mite invogliava a passeggiare in maniche di camicia.

In una boutique, acquistai una sorpresa per Chiara. Poi mi recai in un ristorante toscano che conoscevo, in via della Vite.

La cena, accompagnata da un calice di Chianti, costituì un buon modo per chiudere in bellezza la giornata. O meglio, uno dei miei preferiti.

Rientrato in hotel, indugiai nella saletta presso la reception sfogliando i giornali. Helga era sparita, sostituita da un barbuto collega a cui toccava il turno di notte, mentre l’andirivieni dei clienti era piuttosto diminuito.

Non riuscendo a interessarmi alle notizie, sempre le stesse, presi a curiosare in giro. Avevo già notato le stupende colonne romane nell’atrio al pianoterra ma ciò che trovai nell’ambiente adiacente mi colse impreparato. Mimetizzata dall’arredamento moderno m’imbattei nella bocca di un pozzo, sovrastata da una pesante griglia di metallo dorato.

Il bordo, decorato a sbalzo, poneva in risalto il manufatto.

Non appariva costruito per attingere acqua; bensì a calarvi dentro qualcosa. Mi sporsi oltre il bordo, per scorgere il fondo, e un forte odore di umidità mi saturò le narici.

Mi rialzai, studiando il salottino. Per quanto incredibile, la sua forma ricordava una cappella medievale. E il pozzo era lì, dove un tempo sorgeva l’abside.

Mi chiesi che senso avesse.

Sui resti romani era stato edificato un santuario cristiano.

Sembrava affermare la continuità di un culto propiziatorio.

Mi figurai le persone vissute in quel luogo, le passioni e le paure che li avevano animati. Ma non disponevo di sufficienti elementi per stabilire quale potere intendessero ingraziarsi.

Gettai uno sguardo all’orologio: segnava le ventitrè.

Quasi non riuscivo a tenere gli occhi aperti. Accantonai le fantasie e le elucubrazioni distorte, indotte dalla stanchezza, e filai a dormire. Il giorno dopo avrei dovuto affrontare con altri colleghi un sacco di questioni in sospeso, inerenti i software da installare presso le nostre filiali e non sapevo quando avremmo terminato.

Una doccia, una telefonata a casa, poi spensi il cellulare e l’ingombrante abat-jour d’ottone sul comodino, confidando nel ristoro del sonno. Nel cuore della notte, qualcosa mi svegliò.

Ripensandoci il sangue mi si gela ancora nelle vene.

La temperatura della stanza, immersa nella quiete assoluta, era diminuita di parecchi gradi, in maniera repentina.

Ero certo di avere disinserito l’aria condizionata, prima di coricarmi, e avrei verificato se non mi fossi ricordato che forse avevo lasciato aperti i vetri. Spalancai gli occhi e vidi le tende ondeggiare, mosse dal vento.

Il chiarore perlaceo della luna cadeva obliquo nella stanza.

All’apparenza non vi era nulla di particolare; tuttavia, non ero convinto. Avvertivo uno strano formicolio alla nuca, e quel senso di disagio che ti rende piuttosto nervoso.

Udii un sibilo cadenzato, come un respiro leggero. Oltre a me nella camera non c’era nessuno, ma era come se vi fosse.

Tesi l’orecchio impietrito, mentre la tensione cresceva.

Nel silenzio captai un fruscio. Sul davanzale, all’altro lato della stanza, si era mosso qualcosa. Un’allucinazione, credetti.