— Tra due giorni sarà tutta tua, comandante — James azionò il laser e si rituffò nel motore. Non aveva altro da dire!
— Non voglio morire!
Guardai con la coda dell’occhio Lord Hamilton. Contravvenendo all’etichetta reale, stava piagnucolando con il viso nascosto tra le mani. Era così grasso che si vedeva la carne tremolare sotto la tunica aderente.
La nave sussultò ancora, mentre le stelle pian piano tornavano a riempire il nero dello spazio dopo il transito in iperluce.
L'ennesimo scossone gli fece perdere l'equilibrio, mandandolo a gambe all'aria al centro della sala comando.
— Non si preoccupi — dissi stizzito, fissando lo schermo esterno e ancorandomi alla poltrona di comando. — Non siamo in pericolo. È solo una turbolenza anomala.
Impartii secchi ordini ai piloti. James, che correva da una postazione all’altra, li condì con un urlaccio intimidatorio. La manovra funzionò. L’astronave recuperò di colpo l’assetto.
— Un pozzo gravitazionale all’uscita dal Varco — sbuffò James, sedendosi e dilatando un paio di diagrammi. — Questa è una zona non ancora mappata. È pericoloso e non segnalato. L’equivalente di uno scoglio sommerso a pelo d’acqua.
Hamilton diede di stomaco a fianco della mia poltrona, macchiando il tessuto verde con schizzi di bile. — A pelo d’acqua? — rantolò con un filo di voce.
— Un vecchio detto della Marina Imperiale, signore. — ribatté Spencer con un sorrisetto ironico. Se la stava spassando, lo conoscevo bene. — Credo risalga al periodo in cui le navi si spostavano galleggiando negli oceani.
Il nobile non aveva afferrato la questione. Lo capii dall’espressione ebete. James lo ignorò e disse: — Sembra non ci siano più ostacoli. Stimiamo di raggiungere la fonte del segnale tra … — diede una rapida occhiata alla console — sei giorni standard.
— Ottimo. — Mi rilassai sulla poltrona stiracchiando le gambe con gusto — Non abbiamo molto da fare, allora. Rotta costante e velocità media. Siamo in zona inesplorata, procedura di Investigazione Standard. Nessuna deviazione non programmata e sensori tarati su orizzonte temporale di venti minuti. Non forziamo i motori.
Guardai James e conclusi in tono gioviale — Possiamo prendercela comoda. Vediamo se sei ancora scarso a scacchi come qualche anno fa.
— Una massa metallica anomala? — scossi la testa infastidito, a volte Spencer parlava davvero troppo poco — Cosa vorrebbe dire, in termini comprensibili?
— Una macchina — fu la secca risposta. — Grande come una piccola Luna. Il volume non corrisponde al peso, stimato dalla interferenze con il campo gravitazionale, dunque è in parte cava. Emette radiazioni termiche. Quindi…
— È attiva e funzionante. — conclusi. Fissai il punto rosso al centro dell’olografia. Lampeggiava in maniera regolare e ipnotica mentre gli istogrammi di distanza diminuivano rapidi. Capitava, a volte, di ritrovare nelle zone inesplorate dei manufatti di civiltà sconosciute. Pezzi di astronavi, satelliti, stazioni orbitali alla deriva. Nella migliore delle ipotesi finivano in musei, per la gioia degli archeologi. Questa roba, però, era diversa.
Buttai un’occhiata interrogativa. — Tecnologia ankoriana? Sono l’ultima nazione nota prima della Terra Incognita.
Spencer scosse la testa. — Gli ankoriani riesco a malapena a mettere in orbita attorno alla loro Luna dei satelliti, figuriamoci un oggetto del genere. È roba aliena. Sconosciuta.
— Tempo di contatto visivo?
— Non riuscirai a fare pranzo in santa pace, temo.
L’immagine piombò nella sala comando con la violenza di un asteroide. Una macchina enorme, un ammasso di punte, lamine e pannelli distribuiti senza un apparente senso logico in una forma vagamente cubica. Era circondata da piccole navi spaziali, ognuna con il radio faro attivo che lanciava il segnale di riconoscimento.
Tutti uguali.
Spalancai gli occhi, stupito. — Non è possibile.
Spencer, la testa abbassata sullo schermo, sfogliava i dati in arrivo con rapidi colpi di mano. — Lo so che non ci crederai — mormorò, — ma sono riproduzioni. Riproduzioni perfette della Grazia Imperiale Caterina Terza.
Prima che potessimo commentare una sezione della macchina si aprì con un lento movimento. Un rettangolo nero apparve al centro della struttura, una luce porpora lampeggiante illuminò l’interno e, dopo qualche istante, ne uscì una nave spaziale. Ondeggiò, attratta dall’orbita artificiale e iniziò a ruotare lentamente.
Non fu nemmeno necessario comparare il codice del ponte radio. Bastò leggere il nome, scritto in caratteri oro e argento sulla fiancata.
Ci scambiammo uno sguardo di intesa. Eravamo arrivati alla stessa conclusione.
— Un riproduttore autonomo di materia. — mormorai con un filo di voce, fissando affascinato l’immagine.
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