È tuttavia sulla scelta dei personaggi che gli appassionati si sono accapigliati maggiormente. Il giovane Paul Atreides è impersonato da Alec Newman, praticamente al suo esordio di una carriera che, co me per ogni attore britannico, si divide tra la televisione (diverse apparizioni in serie di fantascienza, tra cui Star Trek: Enterprise), qualche apparizione al cinema e molto teatro, ovviamente shakespeariano. Stonato nel physique du role, se la cava bene nel passaggio dall’ingenuo sedicenne Paul al messianico rivoluzionario Muab’dib. Giganteggia John Hurt, dai produttori usato a mo’ di punta di diamante del film. Solida la sua interpretazione del duca Leto Atreides, che fa rimpiangere la sua precoce dipartita all’interno della storia. con un interpretazione seria e degna di uno dei più bei personaggi del romanzo. Saskia Reeves, una solida carriera nella televisione britannica, impersona magistralmente Lady Jessica (d’altronde è fisicamente identica al personaggio descritto da Herbert), valorizzata da una sceneggiatura che intende accentuare l’idea del contrasto tra la severa Bene Gesserit e la madre protettiva. Nel sequel I figli di Dune sarà sostituita dalla più celebre Alice Krige. Modesta invece l’attrice ceca Barbora Kodetova (che tra i suoi precedenti televisivi annoverava anche la prima serie di Fantaghirò) nelle vesti di Chani, raffigurata come una donna fin troppo dura e sicura di sé, una tipica Fremen che ha però poco delle debolezze tratteggiate nel romanzo. Stranamente in ombra personaggi come Thufir Hawat e Duncan Idaho (che nella saga letteraria assume un ruolo via via più decisivo). La produzione sembra trovarsi decisamente più a suo agio con i “cattivi”. Ian McNeice, nei panni molto larghi del Barone Vadimir Harkonnen, s’ispira chiaramente a Lynch. Grasso, bruttissimo e subdolo, si dimostra subito un personaggio di carattere grazie ad un interpretazione un po’ troppo sopra le righe ma ben intonata. Molto ben reso anche suo nipote Feyd-Rautha, di aspetto fisico completamente diverso dallo zio ma dalla identica perfida mentalità (nel film di Lynch, come gli appassionati ricorderanno, era interpretato da Sting). Clamorosamente fuori luogo la scelta di Giancarlo Giannini nel ruolo dell’Imperatore Shaddam IV, che fa rimpiangere José Ferrer, su cui era caduta la scelta di David Lynch. Nella miniserie Harrison gli concede più spazio, ma del tutto immeritato. Senza riuscire a valorizzare un attore che si trova chiaramente a disagio nel ruolo, il costumista sceglie per lui abiti da pagliaccio che rendono tutto molto stonato. Si rivaluta solo nell'epilogo quando, ormai sconfitto, esce di scena lento e sconsolato mentre nella sala del trono Paul abbraccia Chani vittorioso, e dietro di lui nell'ombra i dignitari imperiali appaiono marionette abbandonate al loro destino. La bontà del progetto di questo Dune non sta comunque né nelle scelte del cast né nella resa degli effetti speciali, che pure fanno molto nonostante i limiti di budget. La regia di Harrison regala un universo credibile nel quale lo spettatore riesce a immergersi. Le navi spaziali, gli ornitotteri, le eleganti sfere che si accedono sfregandole con le mani dimostrano come si possa ricreare un universo fantascientifico senza spendere centinaia di milioni di dollari. Le scelte registiche, che in alcuni tagli particolari, in cui le scene vengono riprese dal basso verso l’alto, o inclinate come nel palazzo del Barone Harkonnen, movimentano la narrazione, che nel film di Lynch appare marmorea. Non è facile trasporre sul piccolo schermo tutte le numerose sfumature che fanno del Dune di Herbert un capolavoro, ma lo sforzo merita e il risultato mantiene le promesse di un prodotto destinato a far avvicinare gli spettatori più giovani alla saga letteraria, obiettivo che non riesce al film di David Lynch – flop storico ma diventato nel tempo una chicca per cinefili, lontano comunque da come Frank Herbert aveva immaginato il suo universo.
Dune, la miniserie e il romanzo
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