Henry Stone guardò fuori dalla finestra del proprio alloggio. Il panorama era da mozzare il fiato: una lunga serie di picchi montuosi si elevava ai bordi dell’altopiano tibetano. Data l’altitudine, era tutta roccia scabra o coperta di neve, tranne qualche spruzzo di vegetazione che s’intravedeva sulle pendici il basso, dove si muovevano le pecore baral e gli sherpa portavano a pascolare gli yak.
Molti degli uomini che lavoravano al Progetto trovavano quel paesaggio allucinante, ma a quell’ora, all’alba con i raggi radenti del sole che si riflettevano sulle cime innevate, era impossibile non riconoscergli un’arcana, aliena bellezza; non c’era da stupirsi che il popolo che abitava quella regione fosse così inclinato verso la dimensione spirituale. Di solito Henry Stone si lasciava catturare dallo spettacolo della luce dell’alba che si rifletteva sulle cime innevate con un’infinità di sfumature dal rosso acceso al rosato che contrastavano con la tonalità bluastra che i raggi luminosi assumevano sul bordo dei crepacci, ma quella mattina uno dei più vertiginosi panorami del mondo non riusciva a trasmettergli sensazioni gradevoli. Gli capitava talvolta, quando si trovava prossimo alla conclusione di un lavoro, invece di compiacersi del successo raggiunto, magari esaltarsi al pensiero di aver compiuto un’opera importante, di sentirsi depresso e domandarsi cosa il futuro gli avrebbe riservato dopo, se e quando gli sarebbe toccata un’altra commessa altrettanto redditizia, ma Henry Stone non aveva mai avvertito la sensazione che provava in quel momento, un senso di angoscia come di catastrofe imminente. Giù nella valle c’era qualcosa che si muoveva, una macchia scura fra il candore della neve ed il riflesso lucido della roccia illuminata dal chiarore radente dell’alba. Un uomo: la cosa strana era che non pareva essere nessuno dei lavoratori del cantiere o dei tecnici, e neppure una guardia cinese, sembrava essere un nativo, eppure il cordone che i militi dell’Esercito Popolare cinese avevano stretto attorno al cantiere, si era rivelato una barriera impenetrabile per chiunque non fosse munito delle prescritte autorizzazioni. L’uomo, un ometto magro dal volto rugoso, ed avvolto in un pesante mantello di pelle di yak, si muoveva molto in fretta e sembrava diretto proprio verso il suo alloggio. Dopo un paio di minuti, Stone sentì bussare alla porta ed aprì. L’uomo era davanti a lui, un ometto magro e basso di statura, un volto allungato segnato da una fitta trama di rughe. Gli occhi erano intensi, profondi, uno sguardo che sembrava scrutare fin dentro l’anima. Come si tolse il berretto di pelo di yak, Henry Stone notò che il suo visitatore aveva i capelli accuratamente rasati a zero. - L’ingegner Henry Stone? -, chiese. - Sono io -, rispose l’interessato. - Si accomodi. - Mi chiamo Panchan Tenzin -, disse l’uomo entrando. - Sono un lama. - Ma scusi… -. Stone stava per obiettare ma s’interruppe. L’uomo non indossava la consueta tonaca arancione del clero buddista, ma questo era logico: sotto il dominio della Cina comunista, la possibilità di movimento dei religiosi, specialmente quelli tibetani, era molto limitata se non si muovevano in incognito. Fin quando era esistita l’Unione Sovietica, gli Stati Uniti l’avevano combattuta come concorrente diretta al dominio planetario, ma per la Cina avevano un occhio di riguardo anche se era responsabile di atrocità e violazioni dei diritti umani in misura non minore dei sovietici, ma l’immenso mercato di braccia da lavoro a bassissimo costo che la Cina rappresentava, era troppo goloso per le industrie americane, e si faceva finta di non vedere che i Tibetani erano un popolo oppresso.
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