Sono seduta sul cofano di un’auto, una gamba piegata sotto l’altra, aspettando che la sigaretta si consumi fino al filtro, così, in equilibrio fra le labbra senza aspirare. La città morta non ha orizzonti, imbevuti dalla nebbia di questa ripugnante e selvaggia invasione.Cercano corpi umani ancora vivi per incubarvi dentro il loro futuro.

La nostra estinzione.

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Quando lo spiavo da lontano, attraverso l’anello, seduta sulle macerie del teatro, non immaginavo fosse…così.

Immenso, spaventoso.

Di fronte a me si spalanca un cratere elissoidale largo duecento metri e profondo altrettanto: qualcosa è sceso dal cielo ed è penetrato come burro nella crosta di palazzi e rovine, incastonandosi sotto di essi, nella roccia.

Lo squarcio titanico che si apre alle spalle del mare è una culla per acqua stagnante e nidi di uccelli che, disturbati, si alzano in volo.

Devo scendere laggiù, dove la luce colpisce un grande oggetto di metallo, ingoiato dalla terra.

Faccio attenzione a non scivolare.

Sul fondo del cratere mi trovo la melma alle caviglie e uno spesso fetore di decomposizione ad insinuarsi fra senso e senso. Sulla superficie liquamosa galleggia uno spesso strato di mucillagine.

Estraggo la pistola. Avanzo piano, i muscoli tesi, innervosita dall’ombra in risacca sotto i lembi cavi del cratere. La mano destra è quasi inerte. Barbagli di luce riflessa dall’acqua, che arriva ad alzarsi fin quasi alla vita, danzano sulle alte pareti fangose, mentre procedo con crescente difficoltà.

Come insetto in una pozzanghera.

Tengo la canna perpendicolare al terreno e aspetto che gli occhi si abituino alla penombra incipiente: non mi fido di ciò che potrebbe trovarsi nell’acqua ferma.

Ma non accade nulla.

Raggiungo l’oggetto semisepolto e appoggio la mano sulla superficie brunita.

Avverto, distintamente, una vibrazione attivarsi al contatto.

Una nave.

Ho scavato con schegge di legno, chiodi trovati nel fango.

Ho scavato con le mani, lacerandomi le dita.

Ho scavato finché non è scesa la notte e mi sono accorta che non sento più la mano destra. Alzo gli occhi: il cielo è una mezza sfera trafitta di stelle e per un istante ricordo, con la gola che brucia e un brivido dietro la nuca, la spinta dei propulsori, le mie dita stringere il sedile sulla plancia di comando, la scia delle galassie impressionarsi sulle retine.

Ricordo ed è un istante, prima che tutto sparisca e rimanga il silenzio opprimente della città fantasma.

Torno a guardare la nave incuneata nella terra. Sollevo la mano, livida per mancanza di flusso sanguigno, l’appoggio sopra l’incisione di un glifo simile ad un asterisco: il suo significato rimane appeso sotto il pelo della coscienza ma, qualunque sia... risponde.

L’artiglio si stacca lentamente

(il sangue torna a rombarmi nei tessuti)

(brucia e formicola)

e come un aracnide meccanico emerge dalla crisalide dello scythe-glove, la cui membrana cade avvizzita, inutile. Le estremità del dispositivo penetrano nei canali del glifo, si liquefanno e, mentre mi massaggio le dita, l’acciaio fluisce rapidissimo lungo ogni scanalatura della nave: rilievi sottili come ciglia s’illuminano di luce azzurra, rivelando complesse geometrie che avvolgono quello che riconosco come lo scafo di un cacciatorpediniere a propulsione Heim.