La tigre
Ovviamente ci sono le figure delle lune, dei soli e degli animali, e tutte hanno l’etichetta col nome. In Biblioteca, negli schermolibri si vedono le grosse creature che corrono a quattro zampe su una specie di tappeto peloso, e le voci dicono: – Cavalli nel Wyoming – oppure: – Lama in Perù. – Alcune delle figure sono buffe. Certe vorresti poterle toccare. Qualcuna fa paura. Ce n’è una dal pelo lucente, tutto dorato e scuro, con tremendi occhi chiari che ti fissano, non le piaci anche se non ti conosce per niente. – Tigre allo zoo – dice la voce. Poi i bambini giocano con certi piccoli “gattini” che ti salgono addosso, i bambini fanno risatine e i gattini sono carini, come bambole o neonati, finché uno ti guarda dritto e gli occhi sono gli stessi, rotondi occhi chiari che non conoscono il tuo nome.
– Io sono Hsing – disse forte Hsing alla figura del gattino sullo schermolibro. La figura voltò la testa dall’altra parte, e Hsing scoppiò a piangere.
L’insegnante era lì, con il suo conforto e i suoi quesiti. – La odio, la odio! – si lamentò la bambina di cinque anni.
– È solo un film. Non può farti del male. Non è reale – disse il venticinquenne.
Solo le persone sono reali. Solo le persone sono vive. Le piante di papà sono vive, così dice lui, ma le persone sono vive davvero. Le persone ti conoscono. Conoscono il tuo nome. A loro, tu piaci. O se no, come col figlio della cugina di Alida, nella Scuola Quattro, tu dici chi sei e loro ti conoscono.
– Io sono Hsing.
– Shing – aveva detto il ragazzino, e lei aveva cercato di insegnargli la differenza fra dire Hsing e dire Shing, ma la differenza non era importante se non si parlava cinese, e non importava comunque, perché stavano per giocare a nascondino con Rosie, Lena e tutti gli altri. E con Luis, ovviamente.
Se non c’è niente di molto diverso da te, un po’ diverso vuol dire molto diverso da te
Luis era molto diverso da Hsing. Per dirne una, lei aveva la vulva e lui aveva il pene. Un giorno, mentre li mettevano a confronto, Luis osservò che gli piaceva la parola “vulva”, perché aveva un suono caldo, morbido e rotondo. E “vagina” aveva un suono piuttosto solenne. Però, – Pene, peeene, – disse lui con voce affettata – pee-pì! Ha il suono di un cosino piccolino piscioso da femminuccia. Dovrebbe avere un nome migliore. – E loro inventarono nomi. Bobwob, disse Hsing. Gowbondo! disse Luis. Bobwob quando era disteso e Gowbondo quando era dritto, conclusero, piegati in due dalle risate. – Su, su, Gowbondo! – gridò Luis, e il coso levò un poco la testa dalla snella coscia di seta. – Vedi, conosce il suo nome! Chiamalo tu. – E lei lo chiamò, e quello rispose, anche se Luis dovette aiutarlo un po’, e risero finché non solo Bobwob-Gowbondo ma anche loro due non ce la fecero più, rotolandosi sul pavimento, lì nella stanza di Luis dove andavano sempre dopo scuola, tranne quando andavano nella stanza di Hsing.
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