Quattro anni dopo il fiasco di Speed Racer, immonda offesa kitsch ai palati del pubblico nonché causa ufficiale della rottura con il loro storico produttore Joel Silver, i Wachowski tornano dietro la macchina da presa e azzardano una scommessa. Cloud Atlas è un film ambizioso e una singolarità nel panorama delle produzioni ad alto budget, un esperimento di collaborazione alla regia con il film maker tedesco Tom Tykwer e il primo serio tentativo del cinema tedesco con un blockbuster, e anche per questo è una scommessa da cui potrebbe dipendere un’intera carriera. Una scommessa da 100 milioni di dollari, quanto la pellicola è venuta a costare.
Per Andy e Lana Wachowski (quest’ultima alla prima uscita ufficiale dopo la transizione di genere) i fasti di Matrix sembravano ormai lontani, quando nel 2009 si misero al lavoro sulla sceneggiatura con Tom Tykwer. A quanto è dato sapere, i Wachowski avevano opzionato i diritti cinematografici sul romanzo di David Mitchell (edito in Italia da Frassinelli) dopo che Natalie Portman ne ebbe consigliato la lettura a Lana (allora Larry) mentre erano in corso le riprese di V per Vendetta (2006). A inizio 2011 i produttori propendono per un maggiore coinvolgimento nella realizzazione della pellicola e affiancano Tykwer in cabina di regia, concordando una spartizione salomonica dei sei diversi filoni narrativi: ai Wachowski la vicenda che innesca la storia e su cui la narrazione finisce per chiudersi (ambientata nel XIX secolo) e prevedibilmente le due sequenze ambientate nel futuro; a Tykwer le altre tre parti: la vicenda incentrata sulla composizione musicale andata perduta negli anni ‘30 che presta il titolo alla pellicola, la spy-story su una imminente catastrofe nucleare negli anni ’70 e la commedia scanzonata che ha luogo ai giorni nostri.
Il romanzo di Mitchell annida i sei diversi archi narrativi l’uno nell’altro, in un immaginifico tour-de-force che accorda registro e linguaggio sulle sei diverse fasi storiche attraverso cui si snoda l’intreccio. I Wachowski e Tykwer decidono di ricalcare l’operazione con una fedeltà quasi completa, concedendosi solo la licenza necessaria di alternare i diversi piani della narrazione e sfruttando al meglio due delle tre principali risorse concesse dalla settima arte: il montaggio e la musica. Il primo è asservito perfettamente alla storia ed esalta appieno i molteplici paralleli, le periodiche convergenze e i cruciali punti di intersezione della trama; la colonna sonora, inizialmente discreta, quasi invisibile, diventa ben più che un semplice accompagnamento musicale, guadagnando da metà pellicola in avanti la centralità che le spetta, essendo il titolo del film un richiamo diretto al sestetto composto da Robert Frobisher (il duttile Ben Whishaw, già apprezzato lo scorso anno in Skyfall nei panni di Q). E lo score composto dallo stesso Tykwer in collaborazione con Reinhold Heil e Johnny Klimek racchiude alla perfezione, in due ore di musiche originali, lo spirito del film, spaziando dalla dimensione raccolta dei rapporti personali tra i diversi protagonisti al respiro epico che si attaglia a una narrazione imperniata sulle conseguenze a lungo termine delle nostre scelte, capaci di vincere le barriere dello spazio e del tempo.
“La conoscenza è uno specchio”, afferma Somni-451 nel primo filone ambientato nel futuro distopico di Neo Seoul – per voce dell’attrice coreana Doona Bae, nel ruolo per il quale Tykwer e i Wachowski avrebbero voluto la Portman, fermata da una gravidanza – “La nostra vita non è nostra, da grembo a tomba, siamo legati ad altri, passati e presenti, e da ogni crimine e ogni gentilezza generiamo il nostro futuro”. Il suo è un mantra che ricorre lungo il film, echeggiando nel futuro remoto dopo la Caduta della civiltà (in cui la sua testimonianza diventa il fondamento di un nuovo spirito religioso) così come nel passato storico del XIX secolo, che trasfigura nelle vicende storiche dell’opposizione tra schiavisti e abolizionisti lo stesso conflitto per la libertà di cui Somni-451 è protagonista con le altre cloni serventi sue sorelle. E nel passaggio ricorrente da una storia all’altra il senso delle sue frasi è amplificato dall’uso degli attori in ruoli diversi, con abbondante ma efficace uso del make-up per adattarli in sesso, etnia ed età alle esigenze previste dal copione. “Essere vuol dire essere percepiti, pertanto conoscere se stessi è possibile solo attraverso gli occhi degli altri. La natura della nostra vita immortale è nelle conseguenze delle nostre parole e azioni, che continuano a suddividersi nell’arco di tutto il tempo”.
Lo spettatore segue con curiosità le continue trasformazioni dei caratteri, incalzato dal rincorrersi delle rispettive vicissitudini. Dal colonialismo del XIX secolo ai prodromi bellici degli anni ‘30, dagli intrighi degli anni ’70 alla farsa del nostro presente, per addentrarci poi nella distopia iper-consumistica del 2144 fino al futuro post-apocalittico del XXIV secolo, il film modula di continuo i registri sulle storie che va raccontando, confrontandosi con temi di rilievo che spaziano dalla lotta per l’abolizione della schiavitù alla rispettabilità e all’utilità sociale (in particolare quelle connessa al genio creativo), dall’egemonia energetica al consumismo sfrenato, fino al fondamento delle credenze religiose. Racconto storico, spionistico, farsesco e fantascientifico si intrecciano di continuo, tenendo alto il ritmo del film che, malgrado i suoi 171 minuti, scorre via senza titubanze e si dimostra incapace di annoiare lo spettatore.
Il fronte su cui Cloud Atlas si rivela carente è un po’ a sorpresa quello della resa puramente visiva: la fotografia convenzionale di John Toll e Frank Griebe è credibile per la commedia ambientata nel presente e la spy-story del 1973 incentrata sulla giornalista d’assalto Halle Berry, ma non rende un buon servizio alla causa né nella ricostruzione storica del XIX secolo o degli anni ’30, né nell’evocazione del futuro del 2144 e tantomeno del 2321. Ai panorami futuristici spesso spettacolari si contrappongono campi ravvicinati che tradiscono nei dettagli la natura posticcia della ricostruzione. E se la forza dei futuri distopici post-cyberpunk si avvantaggia della fotografia sporca dei bassifondi canonizzata da Jordan Cronenweth e Syd Mead in Blade Runner, la Neo Seoul del 2144 risulta troppo patinata per distillare l’incubo di una società fondata sul consumo spinto alle sue estreme conseguenze, così come le Hawaii del 2321 sembrano più il paradiso terrestre immortalato per un tour operator che il regno del terrore che veramente dovrebbero essere, in balia di superstizioni e cacciatori di teste.
Risulta forse fine a se stessa poi la pedissequa riproposizione del meritorio lavoro sul linguaggio proposto da Mitchell nel romanzo: le neolingue del futuro, mal supportate dall’impianto satirico che faceva dell’Arancia Meccanica cinematografica di Stanley Kubrick un capolavoro all’altezza del prototipo letterario di Anthony Burgess, sortiscono a tratti un effetto involontariamente comico che non giova alla resa drammatica di alcuni momenti della pellicola. Ambivalente riesce l’approccio al tema della predestinazione, con i Wachowski incapaci di decidersi tra la riproposizione della figura dell’Eletto nel personaggio di Somni-451 e la smitizzazione delle credenze religiose in un postumanesimo neo-illuminato appena accennato. Infine, il tono surreale che risulta particolarmente azzeccato nelle visioni demoniache di Zachry/Tom Hanks (con l’Old Georgie maschera diabolica di grande impatto nell’interpretazione del mattatore Hugo Weaving) scade nella parodia involontaria quando forza la mano sulle semplificazioni metaforiche, per cui la Terra viene indicata dallo stesso Zachry con ferma convinzione in una… stella blu nel cielo di un altro pianeta (laddove sarebbe bastato sostituire nello script alla Terra il Sole e mostrare un puntino bianco-arancione).
Quest’ultima sembra più che altro una inutile concessione al grande pubblico, ma la caduta di stile è inequivocabile, come anche nelle frequenti strizzatine d’occhio sull’amore – e in questo Cloud Atlas sembra inciampare come kolossal fantascientifico sullo stesso ostacolo che già si era trovato tra i piedi Luc Besson nel Quinto Elemento (1997), l’altra grande produzione sci-fi europea con un cast di star internazionali. Ma a differenza del Quinto Elemento e malgrado le incertezze citate, Cloud Atlas è un film che avvince dal prologo fino all’epilogo, a differenza per esempio dell’audace ma gelido The Fountain – L’albero della vita (2006) in cui Darren Aronofsky si confrontava con tematiche affini. È un film con un’anima, provvisto di una sua personalità. Non un film perfetto come ci ha abituati il cinema fantascientifico di Christopher Nolan, ma nemmeno una beffa come si è rivelato lo scriteriato Prometheus che mi rifiuto di attribuire a Ridley Scott, che nella propria essenza di vuoto contenitore ribaltava a proprio svantaggio il rapporto tra pregi e difetti illustrato per Cloud Atlas: una straordinaria resa estetica, per una storia priva di qualsiasi sostanza (a partire dalla materia grigia degli sceneggiatori). Ed è sì un film che omaggia la tradizione sci-fi (da Ray Bradbury a 2022: I sopravvissuti, agli anime del Sol Levante), in linea con il gusto postmoderno che informava la cifra stilistica della trilogia di Matrix (1999-2003), ma lo fa in maniera meno invasiva e soprattutto con l’ambizione di confrontarsi da molteplici angolazioni con tematiche importanti e con paralleli impegnativi come l’Olocausto.
Pertanto, per chi scrive, Cloud Atlas è una scommessa vinta: i pregi fanno propendere l’ago della bilancia decisamente in suo favore e si spera che la pellicola possa aprire una nuova fase tanto nel cinema europeo quanto nella carriera artistica dei Wachowski. Di mestieranti alla loro altezza per competenze tecniche e talento immaginifico il cinema di fantascienza non può permettersi di fare a meno.
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