La notte afosa era riempita dal silenzio di tanto in tanto rotto dai cigolii dall’esterno di porte e finestre spalancate (sembravano globi oculari vuoti) che si muovevano spinte dalle folate di vento nebbioso. Nel dormiveglia fui colto da un brivido sinistro mentre immaginavo di ascoltare la voce di Teo Davolio, in una eco distorta. La voce alterata mi stillava nel cervello. Ne seguivo le parole mentre insisteva su quanto mi aveva detto nel pomeriggio in una formula che si ripeteva all’infinito. Sognavo di essere nel Centro ricerche. Ero lì, solo nel buio, madido di sudore in fondo a un corridoio largo e apparentemente senza fine che si perdeva nell'immenso spazio asettico e inodore. Mi sentivo un cosmonauta che si muove lentamente sul suolo di un corpo celeste sconosciuto. Sognavo la piccola dama bianca. La vedevo dietro la grande vetrata d’ingresso che mi fissava. Passava attraverso la vetrata. Era dentro e aveva un incedere lento, inquietante e rigido. Nella granulosità della visione onirica veniva nella mia direzione. Poi di sorpresa mi era vicina, a pochi centimetri dalla mia faccia. I contorni del viso erano sfocati e indefiniti. Gli occhi lattescenti erano grandi e cerchiati, privi di pupille, le labbra pallide tremavano. Quando fissai il nulla dei suoi occhi lei emise un suono afono e stridulo, agghiacciante, che seguitò a riprodursi in un’eco interminabile nel lungo corridoio del Centro ricerche. Rimasi pietrificato.

Mi svegliai con le ginocchia di piombo. Mi sentivo come intrappolato e vulnerabile con uno sgomento acuminato nel cuore, agitato e tra vampe di sudore come fossi ancora nell’incubo. C’era il ronzio monotono del condizionatore acceso. Erano le 3 e e tre quarti del mattino.

Sentii armeggiare dietro la porta. Mi alzai e in un tempo brevissimo la aprii, con sbalzi aritmici del cuore e tra infiniti affanni. Vidi un’ombra bianca che, nella foschia della notte, scompariva dietro l’angolo. C’era afasia tra i miei pensieri e le mie azioni e una condizione illogica che mi premeva. Le gambe dopo l’intorpidimento dell’incubo si muovevano velocemente come fossero autonome. Per strada inciampai in malo modo nella grata divelta di un tombino. Mi avvitai su me stesso cadendo sbilanciato in avanti imprecando ferocemente mentre mi stringevo le mani attorno alla caviglia. In un istante mi rialzai. Vacillavo come un ubriaco. Voltai l’angolo. Nessuno.

Perso nella Città Morta

Il Grande Arco di pietra apriva l’accesso all’antica Città Morta. Era una babele di rovine accavallate nascoste dall'andamento irregolare di roccioni in un impasto architettonico di costruzioni tufacee, sentieri, grotte strambe e buie scavate nelle viscere della terra.

Un tempo si chiamavano i “Sassi di Matera”. Percepivo, mentre mi avventuravo nell’imbuto che mi inghiottiva, un'immagine inquietante e minacciosa. La tensione saliva. Tutto si mescolava in una melassa nera di concetti e gesti. I riflessi della Luna rossa nella foschia densa del cielo davano alla Murgia deserta, che scorgevo di fronte in lontananza, l’impressione di una veduta di Marte. Ne intravedevo i profili di rocce aguzze o levigate color ruggine che finivano sull'orlo dello spaventoso crepaccio primordiale del torrente Gravina.