“Credo che sia stato Hokusai, nel libro The Old Man Gone Mad With Painting, che disse, all'età di novant’anni o giù di lì, «Ho dipinto per sessant'anni, e se avessi avuto altri trent'anni, avrei continuato». È esattamente come mi sento io”. Così si descriveva Paul Di Filippo nel 1998, all’epoca della prima edizione italiana della sua Trilogia Steampunk, su Delos Science Fiction. Aveva iniziato a scrivere presto, ma a pubblicare molto tardi. Il suo grande successo editoriale, la trilogia di racconti ripubblicati dalla Delos Books, usciva negli States nel 1995, rendendolo “l’ultimo dei cyberpunk consacrati da Mirrorshades a raggiungere il traguardo della pubblicazione di un libro” (sulla storica antologia, Paul Di Filippo aveva pubblicato il racconto Stone è vivo).
La verità è che Di Filippo, nonostante la vena letteraria prorompente e attualissima, proveniva da una generazione di appassionati di fantascienza cresciuti a pane e magazines, una generazione presto resa orfana dalla crisi delle riviste di genere e con sempre meno spazi per la pubblicazione, soprattutto quando si trattava di proporre agli editori delle storie un po’ particolari, anche dal punto di vista stilistico. Così, Di Filippo ha dovuto aspettare parecchio prima di poter proporre due dei suoi più interessanti racconti, Vittoria e Walt ed Emily, in una forma più consona alle esigenze del mercato editoriale, quella del volume, arricchito da quello che è forse il pezzo forte della trilogia, l’allora inedito Ottentotti (nella prima traduzione il titolo era Il feticcio rubato). Ora che la Trilogia Steampunk è tornata con una calorosa accoglienza nelle librerie, la fantascienza è parecchio cambiata: la narrativa peculiare di Di Filippo gode non solo del favore della critica d’oltreoceano, ma anche di quella italiana e di buona parte della comunità dei lettori di fantascienza, che in Italia ha potuto gustare alcuni suoi racconti pubblicati in antologie tematiche dedicate al cyberpunk (genere che ha dato i natali letterari a Di Filippo) e in un’indimenticabile antologia personale edita da Urania, L’imperatore di Gondwana, e che ora può considerate colmate molte lacune con la pubblicazione da parte della Delos dell’acclamatissimo Un anno nella città lineare e del suo seguito La principessa della giungla lineare, insieme alla prossima uscita di un’antologia curata da Elara, la traduzione italiana di Babylon Sisters.
“Non sono io il padre dello steampunk”, nicchia Di Filippo ogni volta che lo si presenta con questa definizione. È noto infatti che il termine è stato coniato da K.W. Jeter, ma la sua storia “è un po’ come quella della Xerox, che ha inventato i componenti che sarebbero stati usati dalla Apple: poi è venuto Steve Jobs e si è preso tutto il merito”. Lo dice con grande ironia e una grassa risata da americano, sul palco dell’Italcon, dove siede a suo agio insieme al “patron” Armando Corridore e all’istrionico Paolo Attivissimo, nell’inedita veste di traduttore simultaneo; ma un po’ è vero: rispetto ai tanti autori che lo hanno preceduto, come Tim Powers e James Blaylock, di cui è stato appassionato lettore, Di Filippo ha saputo riforgiare un genere tutto proiettato al divertissement e, senza perdere la sua inguaribile vena ironica, ha saputo elevare lo steampunk sia nei temi che nello stile.
“Il mio steampunk, penso, è a metà strada tra quello fatto di pura azione e avventura alla Powers e alla Blaylock e quello di Gibson e Sterling con La macchina della verità, che è il più difficile perché richiede una profonda conoscenza della tecnologia, della cultura e della politica del tempo in cui la storia è ambientata”. Un’autonalisi molto lucida, perché in effetti la sua letteratura mantiene inalterata la freschezza della narrazione con la profondità dei temi trattati, senza mai prendersi troppo sul serio. Anche quando lo stile è un problema: “Ci sono due modi di affrontare la questione dello stile nello steampunk: devi emulare lo stile letterario dell’epoca se, per fare un esempio, scrivi qualcosa ambientato all’epoca di Shakespeare, oppure usare una prosa che è fondamentalmente quella del Ventesimo e Ventunesimo secolo ma evitando termini gergali e anacronismi”. Walt ed Emily rappresenta l’incrocio perfetto tra queste due esigenze, fondendo insieme un linguaggio accessibile al lettore moderno e uno stile tratto dalle opere dei due protagonisti del racconto, Walt Whitman ed Emily Dickinson, che Di Filippo fa incontrare violando la realtà storica perché, racconta, “sono tra i miei autori preferiti e ho sempre desiderato che s’incontrassero” (facendo faticare molto il suo traduttore italiano, l’infaticabile Salvatore Proietti, nel rendere nel migliore dei modi le sfumate variazioni di Di Filippo dei versi dei due autori).
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