È successo qualcosa alla Terra in generale e alla Liguria in particolare. Il Mondo di Prima è solo un ricordo, ciò che ne resta è fatto di ruggine e rovine inghiottite dall’acqua. Per Spèza, ex perla del Golfo, ex- porto militare e mercantile d’eccellenza, il mare è una minaccia costante capace di spazzare via ogni cosa: ruderi di case e di vite che ancora lottano per sopravvivere.
La sola difesa fra l’Entromuro - uno specchio di acque tossiche che stagnano fin dentro quella che era la città - e il Fuori è la muàgia, lo sbarramento da un lato all’altro del golfo, fatto di strati su strati di rottami metallici e cunicoli, con tredici enormi pompe che faticosamente impediscono alla marea di salire. L’unico che riesce mantenerle in funzione è Artibano, l’ultimo dei custodi. L’ultimo dei massacàn.
In una città ormai divenuta la brutta, putrida copia di una Venezia tutta ligure, dove la Gese (Chiesa) ha mantenuto un dominio deviato e corrotto, una vecchia minaccia si risveglia fra le sale sommerse del Cimitero delle Navi: il suo triplice aspetto ha le sembianze di antiche divinità e spettri moderni.
Ultimo Orizzonte di Valentina Coscia è un urban fantasy con ambientazione post-apocalittica, focalizzata su una città ormai “cadavere spiaggiato” in un distopico futuro alla Waterworld, dove il mare ha tinte sporche e mostra un volto quanto mai ostile.
In tutto questo s’innesta una componente fantastico-folklorica che tocca tradizioni locali, arti e mestieri della gente del porto, superstizioni e leggende autoctone. Il risultato è una specie di techno–urban, dove il mostro che sorge dal mare ed esige sacrifici ha l’aspetto classico della polena maledetta (una specie di Morrigan acquatica con i suoi famigli), ma anche quello di un elicottero schiantato a cui si appendono feticci umani, e di un'enorme, minacciosa nave rossastra … che magari, nel Mondo di Prima, si chiamava Jolly Rosso. I due elementi formano un singolare ibrido narrativo, nel quale scenario e storia non sempre sono allo stesso livello ma offrono un risultato più che apprezzabile.
I personaggi “soprannaturali” sono i meno riusciti come caratterizzazione. L’alleanza poli-culto fra il cristiano San Venerio con tanto di drago, il celtico Belenu e la classica Venere è il lato più debole della storia: svelare la divinità è difficile, il rischio è renderla sempre troppo umana, come in questo caso.
Molto più efficaci le “bestie a due zampe” che vivono la città e ne sono la voce, si raccontano attraverso un quanto mai difficile quotidiano, combattono sopra e sotto l’acqua fino al magico rituale conclusivo.
La narrazione ha un ritmo serrato e sintetico, fa percepire odori e colori, rende credibili le vicende attraverso un linguaggio conciso e realistico. Come per ogni testo scritto con abbondanza di dialetto, l’inizio della lettura è un po’ straniante ma, dopo qualche pagina, destreggiarsi fra parole come margòn e massacàn (palombaro e muratore, le due figure chiave del romanzo), camallo, mesciùa o fantìn diventa naturale, grazie anche alle numerose note esplicative.
L’impressione complessiva è quella di un romanzo (crudo, il cui finale è lieto solo a metà) che, superata qualche scivolata, possiede un’originalità capace di affascinare e il pregio di aver azzeccato un’atmosfera al di là del semplice post-apocalittico.
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