E anche The Steampunk Trilogy, pubblicato nel 1995, esplora territori metaletterari, mettendo in primo piano quel dissacrante spirito gonzo di cui parlava Jeter. Le preoccupazioni di Di Filippo non sono certo i gadget e le invenzioni (pur non assenti), ma le ambientazioni e la ricostruzione – e decostruzione – di un ambiente. I tre racconti lunghi che compongono l’antologia sono sogni di un Ottocento alternativo, tutti altamente umoristici: più rabbioso il primo, acido il secondo, intenso il terzo.
In Victoria (pubblicato per la prima volta negli Usa, su Amazing nel 1991) l’unico vero inventore della Steampunk Trilogy si presenta come figura priva di senso della responsabilità, degno rappresentante di una società britannica a metà fra il tragico e il ridicolo, in cui l’unica a mantenere una dignità è proprio la Vittoria “artificiale”. Nello spirito e nella figura di Cosmo Cowperthwaite, questo è il racconto più fedele agli stili del sottogenere. Ma nelle due seguenti storie di ambientazione americana, Di Filippo tocca tasti più personali, e forse ancora più sentiti. Qui il rigore storico della ricostruzione è assoluto, in ogni dettaglio.
In Hottentots (pubblicato per la prima volta nel volume), abbiamo il contrappasso dello scienziato razzista Agassiz che si ritrova “salvato” dalla donna africana. Agassiz è figura tragicamente reale dell’Ottocento americano, come reali sono le ricerche “craniometriche” del teorico della razza Samuel George Morton, beffardamente riecheggiate anche nell’evocazione di Stephen Jay Gould, il biologo nostro contemporaneo che dimostrò la totale malafede delle sue conclusioni, e le vicissitudini della “Venere ottentotta”, la donna sudafricana trasformata a inizio Ottocento in fenomeno da baraccone, ed esibita nuda in tutta l’Inghilterra. E anche nella deriva lovecraftiana della storia c’è qualcosa di metanarrativamente ironico: nell’universo di Di Filippo, il presunto (o forse reale) razzista Lovecraft ha preso ispirazione da miti africani. Mentre ad avere bisogno di feticci, purtroppo, siamo noi.
La conclusiva Walt and Emily (pubblicato per la prima volta in Inghilterra, su Interzone nel 1993) è innanzitutto una storia d’amore fra due “grandi” della letteratura americana, ed è senza dubbio un’opera di virtuosismo letterario. Se tutti i personaggi (tranne una) sono rigorosamente figure storiche reali, a Emily Dickinson e Walt Whitman spetta un ruolo ulteriore. I loro dialoghi sono spesso basati sulle loro poesie (talora con piccoli, significativi ritocchi), e le citazioni poetiche seguono un’accuratezza filologica (con scarti deliberati e allusivi). In definitiva, Di Filippo li pone all’interno dei paesaggi delineati nelle loro opere. In parte, siamo invitati a considerare le loro avventure come ispirazione della loro produzione successiva. E allora, anche se sua la vera natura resta sfuggente, la loro destinazione è una sorta di terra dell’immaginazione poetica, in cui nel finale si ritrovano a incontrare i loro epigoni ideali (chiamati quasi tutti solo per nome, proviamo a evocarli noi per intero: Hart Crane, Allen Ginsberg, Sylvia Plath, Ezra Pound, Adrienne Rich, Delmore Schwartz, Anne Sexton). Nello sfondo di un periodo storico che considerava scienza anche la “ricerca psichica”, questa appare tutt’altro che una forzatura. Chiamiamolo, se si vuole, meta-steampunk. Ci sono diversi modi di varcare i confini fra i generi letterari, in altre parole sembra dirci Di Filippo.
Alla fine, nella straordinaria Emily Dickinson messa in scena da Di Filippo troviamo una protagonista che diventa quasi portavoce della visione scettica dell’autore. Se le tre storie sono indipendenti fra loro, a tenerle insieme è proprio la forza delle protagoniste femminili.
Anche per questo, probabilmente, questo libro è il capolavoro dello steampunk.
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