Ma è negli Usa che prende forma il fenomeno steampunk. Nel 1987, il termine viene coniato in una lettera alla rivista Locus da K.W. Jeter, che parla delle satire storiche (“gonzo-historical”) sull’era vittoriana prodotte da lui stesso, James Blaylock e Tim Powers. In Morlock Nights (1979), Jeter aveva riportato le creazioni della Macchina del tempo dal futuro all’epoca di Wells, mentre nel successivo Infernal Devices (1987) l’era vittoriana si muove fra invenzioni che precorrono il repertorio SF del nostro tempo (ibridi genetici e robot compresi). Più vicino alla fantasy è Tim Powers (da The Anubis Gates del 1983 a On Stranger Tides del 1987, utilizzato come base per l’ultimo, non riuscitissimo film della serie Pirates of the Caribbean, a The Stress of Her Regard del 1989), che fa raffinato uso di personaggi storici fra cui il ricorrente Byron. Ugualmente ben radicati nella storia sono i romanzi di Blaylock, nel segno di uno humor leggero, fra cui il più famoso resta Lord Kelvin’s Machine (1992).
Il momento di svolta è The Difference Engine di William Gibson e Bruce Sterling (1990): un mondo in cui il matematico Charles Babbage riesce a far produrre il suo proto-calcolatore, che diventa il nucleo centrale di tutto uno sviluppo socioeconomico divergente. La ricostruzione di Gibson e Sterling, di dimensioni epiche, conferisce allo steampunk un’attenzione che va oltre la nicchia dei cultori del fantastico.
Progressivamente, sono gli altri media a creare la vera fortuna dello steampunk. Nel fumetto, The Adventures of Luther Arkwright di Bryan Talbot (1997) è il più vicino a Moorcock, e negli anni successivi Alan Moore con The League of Extraordinary Gentlemen e Tom Strong elabora una riscrittura enciclopedica di tanti nostri miti culturali formativi. Nel cinema i vertici sono soprattutto nell’animazione, e stavolta un contributo viene proprio dall’Oriente, che con Hayao Miyazaki si riappropria di uno stile fino ad allora euroamericano (su tutti, Il castello errante di Howl). Il punto è che in entrambe le forme, e su scala globale, questa è solo la punta di un iceberg immenso, che abbraccia sia il campo seriale sia quello “autoriale”. Nel cinema, ricordiamo almeno Sky Captain and the World of Tomorrow (2004) e The Prestige di Christopher Nolan (2006), e nella tv numerose incursioni di Doctor Who. Lo steampunk, in altre parole, è diventato mainstream, e chi tiene alle mode e alla casuistica conia una pletora di sotto-sottogeneri: dieselpunk, clockpunk, atompunk; siamo nei puri territori delle mode e del marketing, però, e qui ci fermiamo.
Ci sembra, invece, che la presenza più solida dello steampunk sia quella di una componente fra le altre: nella SF, dalle aeronavi di Superluminal di Vonda McIntyre (1983) alla sottotrama sui “neo-vittoriani” di The Diamond Age di Neal Stephenson (1995); nella fantasy, le fabbriche di Michael Swanwick e le città dickensiane di China Miéville hanno contribuito ad aprire definitivamente al genere scenari non solo medievali. Mentre un filone della subcultura steampunk si pone in termini politici, fra l’anarchismo e il neoluddismo (Si veda Margaret Killjoy. Guida steampunk all’apocalisse, Milano, Agenzia X, 2008), si sta sviluppando un nuovo gruppo di autori specializzati, dalla più commerciale Cherie Priest all’interessante Mark Hodder, mentre non mancano le incursioni di sinceri appassionati come Joe R. Lansdale e Michael Chabon.
Di tutto questo repertorio, nel momento iniziale del sottogenere, Paul Di Filippo fa un uso personalissimo. Della sua carriera abbiamo parlato nell’introduzione a A Year in Linear City (Paul Di Filippo, Un anno nella città lineare, Odissea n. 26, Delos Books, 2008). In comune, i due libri hanno una scarsa considerazione per i confini tra SF e fantastico. Nei due “Linear City Romances” (il secondo, A Princess of the Linear Jungle del 2010, sarà presto tradotto in questa collana), l’ambientazione è così vaga da rendere impossibile ogni attribuzione generica: una sorta di mondo “ricorsivo”, metafantascientifico, che serve innanzitutto a letteralizzare le ansie del rapporto fra cultura “alta” e popolare. Questa componente di riflessione sul genere accompagna l’autore in tutta la sua carriera. (Fra le opere tradotte in italiano, lo dimostrano sia molti dei racconti di L’imperatore di Gondwana (Urania 1526, Mondadori 2007), sia il trittico incluso nell’antologia “ricorsiva” Pianeti di parole: La fantascienza della fantascienza, a cura di Stefano Carducci e Alessandro Fambrini, Ed. della Vigna, Milano 2010)
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