— Smith fu anche il primo a togliersi la vita, di voi sette —, ricordò Aulard. Vincentini annuì sommessamente. Infilò di nuovo nel cassetto il ritaglio di giornale e accese invece il suo tablet sulla scrivania. Le dita raggrinzite danzarono sullo schermo finché non apparve un articolo di un giornale online molto noto. Aulard riconobbe anche quello. Era la notizia del funerale di Nadia Fernandes de Melo. — Fu un colpo ancora più duro quando se ne andò lei, che era stata un’ottima collaboratrice per tanti anni, per quanto non ci vedessimo più molto spesso. Fu allora che capimmo, noi cinque, quelli che erano rimasti, che il tempo stava scadendo. Se c’era un proposito cosmico, ora aveva ripreso a muovere le cose del mondo. Se qualcuno ci aveva usato per far fare all’umanità un balzo in avanti, ora non aveva più bisogno di noi: ci lasciava morire uno a uno, tormentati dalle nostre domande senza risposta, e dall’instabilità sempre maggiore di quella dimensione nascosta che ci aveva reso dei geni.

— Non avevate più accesso all’iperuranio? — Sempre di meno. Ogni volta che qualcuno di noi scompariva, anche l’iperuranio diventava sempre più inaccessibile. Quando rimasi solo io, non ebbi più modo di raggiungerlo. Ma intanto era emersa una nuova teoria, tra noi. Sia Adrian che Nadia avevano lasciato dei messaggi prima di morire, indirizzati a noi, ovviamente in codice. Ma riuscimmo a comprenderne il senso. Fu quella scoperta che ci distrusse. I miei colleghi si convinsero che morire, suicidarsi, sarebbe stato il solo modo per risolvere l’enigma. Per farla breve, monsieur Aulard, nessuno di loro si uccise perché impazzito. Fu una loro scelta precisa.

Aulard strabuzzò gli occhi. — In che senso? Aspetti, ma… ma allora perché lei invece…. La domanda restò appesa nell’aria. Qualcuno bussò alla porta.

— Avanti —, esortò Vincentini. Entrò un uomo sui cinquant’anni dai capelli brizzolati, che portava quella che inequivocabilmente era una borsa da medico.

— Dottore, è sempre un piacere —, lo accolse difatti il vecchio scienziato.

— Padre Bartolomeo… —, salutò l’altro.

— Un mio ospite, monsieur Aulard —, disse Vincentini presentando lo studioso. I due si strinsero la mano.

— Ahimè, mi sono lasciato trasportare dai ricordi… —, mormorò Vincentini. — Non sono più padrone del mio tempo, professore, e sicuramente non ne ho abbastanza per raccontarle e farle capire tutto. Lei ha mai letto Platone?. Aulard esitò.

— Certo, qualcosa —, rispose. — Lo rilegga. Sa leggere il greco antico?

— Veramente, no —, ammise.

— Peccato. Altrimenti le avrei consigliato un’antica raccolta in lingua originale dei dialoghi platonici. Sa, qui all’abbazia mi occupo della biblioteca. Abbiamo testi rarissimi che curo con grande amore. Ma potrò senz’altro farle avere un’edizione in francese dei dialoghi. La legga e ci ragioni su. Quando avrà avuto la giusta intuizione, io lo saprò, e ne riparleremo. Detto questo, Aulard capì di doversi accomiatare e, senza dire altro, salutò Vincentini e il dottore e uscì, con più domande di quando era entrato.

 

5

 

Passeggiando all’esterno dell’abbazia, Dominique Aulard cercò di ricostruire l’incredibile incontro con Bartolomeo Vincentini. Aveva avuto delle risposte, parecchie, e quasi tutte difficili da assimilare e ancora più difficili da prendere sul serio. Bisognava riprendere al più presto la conversazione. Ma cosa c’entrava ora Platone? Aulard si sedette sull’orlo di un pozzo coperto, al riparo dal sole che stava cominciando a scottare. Cercò di riflettere. L’intuizione. Era un concetto legato alla conoscenza, e la conoscenza era a sua volta legato alla citazione di San Paolo e, soprattutto, al mistero dei Sette. Era come se Vincentini gli stesse dando degli indizi. Si alzò e decise di andare in biblioteca. La segretaria che l’aveva accolto il giorno prima gli indicò la strada, ricordandogli però che, pur potendo godere del privilegio di visitare la biblioteca senza accompagnamento, avrebbe dovuto far riferimento ai bibliotecari per consultare i volumi. Aulard l’assicurò che non sarebbe stato un problema. Restò colpito dalla grandiosità delle sale. Nel loro sforzo di sistemazione dello scibile, i canonici dei secoli precedenti avevano diviso la conoscenza umana in tanti scaffali diversi, ciascun con il proprio titolo. Alla voce “filosofia”, Aulard riconobbe i testi platonici di cui gli aveva parlato Vincentini, ma non si azzardò a toccarli: erano davvero vecchi. Aveva letto che in quelle sale erano esposti solo i titoli più antichi; perciò, dopo aver ammirato alcune rarità che fecero fremere la sua anima di bibliofilo, s’inoltrò all’interno della biblioteca, dove dovevano essere sistemati i titoli più nuovi. Vi trovò un uomo basso e tarchiato che trasalì al suo apparire.

— Lei è? —, chiese, da sotto due spessi occhiali.