Aveva iniziato a documentarsi su di loro già durante la stesura della sua biografia su Hanfield e Santarosa, gli scopritori del bosone di Higgs. Nel corso delle interviste che i due fisici gli avevano concesso, avevano entrambi ammesso il contributo fondamentale, per la loro scoperta, degli studi sulla gravità quantistica di Nadia Fernandes de Melo, un nome che all’epoca Aulard non aveva mai sentito. Aveva indagato sul suo conto e aveva scoperto trattarsi di una misconosciuta dottoressa di ricerca dell’Istituto di Fisica dell’Università di San Paolo, in Brasile, che aveva messo a punto un programma nel quale era riuscita a riprodurre un elegante modello matematico che spiegava alcuni paradossi della fisica quantistica attraverso una curiosa teoria dei campi gravitazionali. Aveva ottenuto una borsa di ricerca per il Cern, contribuito alle scoperte di quegli “anni folli”, conquistato qualche riconoscimento per addetti ai lavori e infine aveva fatto rientro in Brasile nel 2033, senza che se ne sentisse più parlare. Aulard le aveva dedicato un breve paragrafo, per poi quasi dimenticarsene nei mesi successivi alla pubblicazione del volume per Gallimard. Poi su Internet, un giorno, si era imbattuto - non ricordava nemmeno come - in un breve articolo che parlava del suicidio della scienziata. Aveva da poco superato i sessant’anni. L’articolo precisava anche i nomi di alcune illustri personalità che si erano recate in Brasile per assistere ai funerali. Si era meravigliato che tra questi vi fosse anche il famoso Bartolomeo Vincentini, che alcuni anni prima aveva conquistato il premio Nobel per i suoi studi sull’ultramateria. Negli anni successivi, mentre era impegnato a scrivere un libro su Jason Compton, l’inventore dell’omonimo processo di produzione industriale della fotosintesi, aveva scoperto una storia molto simile a quella della sfortunata scienziata. Compton insisteva sul fatto che, senza le ricerche pioneristiche sui nanotubi di silicio di Karl Schulte, non avrebbe mai realizzato il suo primo prototipo industriale. Anche in quel caso, Aulard ignorava tutto di Schulte: Compton gli riferì che aveva perso i contatti con il collega da quando questi aveva fatto ritorno a Dresda, sua città natale, dedicandosi ad altre ricerche. Sapeva solo che era morto qualche anno prima, pur non conoscendone i particolari. Aulard raccolse diversi articoli di giornale sull’argomento e scoprì che, secondo gli inquirenti, molto probabilmente Schulte si era ucciso ingerendo una dose eccessiva di psicotropi, che il medico gli prescriveva per curare una resistente forma di esaurimento. Fu allora che cominciò ad avere i primi sospetti. Chiusi i lavori per quel libro, rifiutò un contratto dell’editore per una biografia su Frank Allen e iniziò a far luce su quei personaggi. Scoprì che non erano solo due. Alla fine, con crescente sbalordimento e dopo tre anni di ricerche in tutto il mondo (compiute senza quasi mai lasciare la scrivania del suo studio a Grenoble), aveva collegato tra loro sette persone. Importanti scienziati che quasi per caso avevano contribuito, con le loro ricerche, a un balzo in avanti in tutti i settori della conoscenza pari alle scoperte della prima metà del XX secolo. Tutti, dopo i loro più importanti lavori, si erano rinchiusi in uno stretto riserbo, apparentemente dedicandosi a questioni diverse dalle loro precedenti ricerche. Era riuscito però a ricostruire alcuni loro incontri. Aulard non aveva dubbi: quelle persone si conoscevano e condividevano qualcosa. Di sicuro avevano condiviso lo stesso destino: uno a uno erano morti dopo essere passati, in alcuni casi, per gravi crisi mentali. Tutti si erano suicidati. Solo di una persona non era stato possibile ritrovare il corpo, benché nessuno si facesse illusioni sul fatto che si fosse annegato nel lago di Pusiano, non lontano dalla sua abitazione, a Como. Era Bartolomeo Vincentini.
— Bene, professor Aulard, mi segua —, scandì la diffidente signora della reception dopo aver chiuso la telefonata. Qualcuno, dall’altra parte della cornetta, doveva aver garantito per lui. — Le daremo una camera nel convitto. I ragazzi sono in ferie e l’anno scolastico inizierà tra qualche settimana, capita a pennello. Purtroppo non possiamo fare di più. Non offriamo ospitalità a esterni, generalmente.
— Andrà benissimo —, concesse affabilmente Aulard. Del resto la stanza era piccola, ma a malapena ci fece caso. Dov’era Vincentini? Forse aveva scrutato il suo arrivo da dietro qualche finestra? Sperava di scoprirlo presto. Al momento aveva pochi elementi su cui basare le sue ricerche. A essere franchi, aveva solo il ritaglio della lettera di San Paolo. Che cosa aveva voluto comunicargli lo scienziato, con quella citazione? Ci aveva riflettuto a lungo, durante il viaggio. Vincentini gli stava parlando della conoscenza. Ma di quale? La conoscenza che l’aveva reso quello che era, uno scienziato da premio Nobel, e che lo legava con i Sette? Oppure qualcos’altro? In fondo, c’era un’altra domanda a cui andava data una risposta: come aveva fatto lo scienziato, dal chiuso di un’abbazia, a scoprire i dettagli della sua ricerca? Aulard guardò il sole tramontare dietro le dolomiti su cui dava la finestra della propria stanza, e sentì un brivido nonostante il caldo d’agosto.
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