— Mi lasci il braccio, mi fa male! — Ho detto: venga.
La nebbia si è tinta di sole come un’ala di farfalla, è diventata trasparente come il vetro di una vecchia casa abbandonata.
L’uomo alto e nero, così alto, trascina l’uomo basso e tondo come se la paura gli avesse tolto ogni peso, Nella nebbia che spegne i rumori, i loro passi sono fruscii di due colombi in più nella gran piazza. L’uomo alto e nero spalanca il portale e procede nel velo d’acqua che copre il pavimento: attraversa vani oscuri e porte ormai corrose finché arriva dove la luce che scende dall’alto in fili sottili è l’unica prigione alla danza della polvere.
Di fronte a lui, mille duri occhi splendenti trafiggono la penombra, Sguardi di perla e diamante. Pallidi volti di santi oppressi e confusi dalla fantastica, fiabesca selva che li trattiene nel suo intrico. E, nascosti fra gemme e fiori e volute e ancora gemme, fantasmi di secoli sorridono, sorrisi di deità pagane, scolpiti nell’oro, all’ultimo figlio, il prediletto.
L’uomo in nero mostra la Pala d’Oro all’uomo in grigio. Gliene indica ogni particolare. Uno per uno. Poi gli dice il prezzo di ogni pietra. Una per una, L’uomo in grigio cammina davanti. Così non vede che, uscendo, l’uomo dal mantello nero alza una mano a sfiorare la Pala d’Oro, quasi come una carezza.
Le case sul canale salgono dall’acqua una ad una, fantasmi ingioiellati dagli occhi di vetro sfaccettato, perduti, malati del loro splendore, chiusi in reti di marmo, si affacciano attraverso l’aria densa a guardare l’uomo dell’altro mondo che sale sul barcone: si muove lento e pesante, e tutta la barca oscilla mentre sale, ed anche il barcaiolo, appoggiato al lungo remo, oscilla con lei, rigido. Quando è salito, l’uomo in nero sulla riva si allontana velocemente. Il suo mantello raccoglie dal sole riflessi da insetto di favola.
I Mori battono mezzogiorno.
Dietro la mia schiena, il grasso verme freddoloso di un altro mondo torna al suo nido di metalli e cromi.
Avrei preferito ucciderlo.
Il silenzio di San Zaccaria, case rosse finestre orlate di bianco gerani gerani gerani; la sua vera di pozzo con l’arco di ferro battuto e fiori anche lì; il grande albero con le radici che ormai avranno toccato il fondo della laguna, e le fronde più alte che coprono la finestra della chiesa, occhio d’insetto di vetro sfaccettato.
L’uomo in nero si avvicina al pozzo, e con lunghe dita brune toglie una foglia secca da una pianta di gerani. Poi siede sullo scalino in basso - il mantello attorno a lui scorre lungo le pietre come acqua densa - e appoggia la testa al bordo del pozzo. Su in alto, al di sopra dell’albero, il cielo è quasi azzurro in questo giorno di novembre.
Il cielo… si sta bene qui.
Fa caldo, su Marte. È passato molto tempo, ma ricordo ancora quel gran caldo, e tutta quella luce. Forse i miei occhi sono troppo vecchi per tanta luce, e quel rosso e quell’oro brucianti, e il gran caldo. Il mio mondo è questo, acqua di velluto, ponti di luna, scalini di musica, e sempre notte, io sono notte, stelle liquide mi corrono nelle vene, pietre e colonne di marmo col loro scintillio opaco di zucchero pesto, e ho un cuore verde nel petto, un cuore di vetro soffiato che può rompersi da un momento all’altro in questo mio corpo d’acqua. Cosa accadrà di me quando dovrò continuare a vivere?
Oggi è il 17 luglio. Ma Peter Parroll non lo sa. È fermo sulla riva del Tronchetto, nel lieto sole del mattino, a guardare la lucida distesa verde-azzurra che copre la città che lui stesso aveva comprato per il suo governo. Il mare s’increspa leggermente, tanto leggermente da sembrare immobile.
Di fianco alla riva, una barca e il suo barcaiolo appoggiato all’unico lungo remo, arso dagli anni e dal sole come un vecchio uccello esotico, come un dio pagano della pesca. Riposa in piedi.
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