Steve alzò gli occhi arrossati per guardare l’orologio sopra il pannello degli strumenti. Finalmente il quadrante aveva perduto la sua bianca lucentezza e andava gradualmente colorandosi d’azzurro.
“Anche questa è passata”, pensò Steve. La stanchezza gli fece chiudere le palpebre. Chiamò il compagno seduto alla console dietro di lui: — Ehi, Mac, ci siamo. Hai cominciato il checking?
Una voce strascicata rispose dietro le spalle di Steve: — Comincio tra. Ha sonno il pupo, eh?
— Senti chi parla. Hai una voce che farebbe rabbrividire un moribondo.
Mac gorgogliò una risata e anche lui alzò meccanicamente gli occhi all’orologio. All’interno dell’astronave era l’ora del tramonto. Quando a casa, sulla Terra, cominciava la sera, dentro l’astronave i quadranti degli orologi cominciavano a tingersi d’azzurro sempre più scuro fino a diventare del colore della notte, una semplice finezza elettronica che non serviva praticamente a nulla, solo a immaginare cosa in quel momento poteva avvenire sulla Terra, a casa.
Nel modulo di servizio, due uomini erano distesi sulle cuccette. Uno scatto impercettibile e una voce sommessa: — Turno di notte... turno di notte...
Uno dei due uomini si scosse, aprì gli occhi. — Larry, il cambio. — Toccò la spalla del compagno. La voce continuava ad avvisare il turno di notte.
— Va bene! — esclamò l’ultimo dei due, la voce spessa dal sonno. — Ho capito. Chissà perché mai tra le migliaia di bottoni che hanno messo in questa carretta non ce n’è uno per interrompere ’sta lagna!
Dopo aver ripetuto “turno di notte” le previste sette volte, la voce finalmente tacque. Nel modulo di comando il controllo degli strumenti prese il solito quarto d’ora, e così quando Steve e Mac stavano ancora ultimando il rapporto, gli altri due erano già lì a sorseggiare una tazza di caffè, aspirandone il contenuto dall’apposito beccuccio.
— Ecco qua. — Mac si rivolse a Larry, alzandosi e stirando le braccia. — È tutto tuo. Nessuna novità. Solo una strisciata sul pannello 473 alle 16:28:16 T.T., ma gli strumenti non hanno segnalato né lesioni né indebolimento della struttura. Il meteorite non dev’essere stato più grosso d’un chicco di riso. Non c’è altro.
Steve aveva completato in quel momento il suo rapporto, mentre il quarto membro dell’equipaggio prendeva visione delle annotazioni. A sua volta Steve si alzò per lasciare il posto al compagno.
— Fra due ore e dodici minuti dovrai modificare la rotta — disse Steve al compagno. — A quell’ora dovremmo incrociare le ultime tracce del campo gravitazionale di B-726/3. È nella nostra rotta ma non abbiamo niente a che fare con lui, è già stato registrato da Alfa 2 un paio d’anni fa.
— Va bene ragazzi, ricevuto — disse Rico sbadigliando. — Andate pure a dormire, e sogni d’oro.
I giorni sgocciolavano monotoni a bordo dell’astronave, e milioni di miglia passavano fulminei. Rico osservava attraverso gli schermi il vuoto dello spazio.
— Larry? Per quanto sia sempre uguale non ti stanchi mai di guardarlo, vero?
— Già — disse Larry. — Ma chi pensava che nello spazio ci fosse tanta quiete?
— È solo apparenza. In realtà là fuori è tutto movimento, un pulsare e un trasformarsi continuo, stelle che nascono e che muoiono... basta essere capaci di vedere. Mi ricorda certi quadri di Van Gogh dove il cielo è una girandola di colori abbaglianti, di spirali. Non c’è staticità ma un continuo ritmo sfrenato.
— Non intendevo questo. Ti ricordi cosa dicevano un tempo circa i viaggi nello spazio, tutte quelle fandonie sugli astronauti che avrebbero dovuto affrontare chissà quali incredibili situazioni? La realtà si dimostra ben diversa. Cosa abbiamo trovato in tutti questi anni di esplorazioni? Qualche ciuffo di licheni e tantissimi giorni di noia, di controlli, di rapporti. Un mestiere da burocrate il nostro, solo un po’ più pericoloso, nient’altro. E per questo ti pagano… Ma dov’è l’avventura?
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