Guido non rispose. Dall’esame erano trascorsi quattro giorni d’inferno. Era scuro in volto, preoccupato. Quarantacinque posti per tremila concorrenti! Di tanto in tanto cercava di sorridere alla moglie, ma più che al riso, gli occhi sembravano prossimi al pianto.In quei quattro giorni un pensiero fisso gli aveva occupato la mente. C’era qualcosa che non sapeva spiegarsi, che nessuno sapeva spiegare. Giù, nei sotterranei dove era installata RHUNE... che facevano i Cibernetici? Alimentavano la grande macchina, la sorvegliavano. O la servivano? Era RHUNE che prendeva le decisioni. Sì, ma era stata costruita dai Tecnici. Guido non capiva se il governo del mondo fosse una funzione umana oppure... La questione era priva di senso, un vero circolo vizioso… e si chiamava Tecnocrazia Integrale.C’era un altro pensiero che scavava come un tarlo, un pensiero deviazionista: i robot. Perché da due secoli riempivano i depositi, disattivati? Avevano deciso così i Cibernetici. No, un momento: RHUNE era stata! Un sospetto assurdo si faceva strada nella sua mente. L’ordìnamento sociale, l’ordinamento scolastico, tutto il complicato sistema di prove, concorsi, quesiti, l’ossessione delle scienze esatte, l’astrattezza, l’abito matematico richiesto per ogni lavoro... Chi voleva tutto questo? Sempre RHUNE!Pensò al mondo due secoli prima: gli uomini che impigrivano soddisfatti d’aver creato automi simili all’uomo stesso, con braccia, gambe metalliche e mani. Automi perfetti. Forse s’era trattato d’un sogno, una tendenza inconscia: trasferire nelle macchine un’impronta umana, pretendere che le macchine si comportassero come gli uomini e godere il piacere sottile e malvagio di vedere impiegati nei lavori più umili i meccanismi più sofisticati.Ma ora? Ora RHUNE aveva il potere supremo, e pretendeva... RHUNE era una macchina che lavorava per rendere gli uomini simili a se stessa. L’essenza della Tecnocrazia era tutta qui.Il mistero di quelle assurde prove d’esame era spiegato: RHUNE si vendicava, da due secoli andava trasformando gli uomini in mostruose calcolatrici e godeva di…
I cancelli si aprirono. Una marea di gente invase l’atrio accalcandosi contro la parete in fondo, dove erano esposti i risultati del concorso.
Guido si fece largo a forza di gomiti. Giunto in prossimità dei tabelloni, sollevò Marisa al di sopra della calca affinché guardasse bene le tabelle. Tutt’intorno, una valanga di imprecazioni, la rabbia sorda di chi non avevano superato le prove. Urla scomposte, qualcuno che si allontanava esultante.
Finalmente Marisa si girò. Gli fece cenno di metterla giù. Gli occhi sbarrati, Guido la fissava.
Lei fece segno di sì, gli si strinse contro. — Sì — disse con la voce strozzata dall’emozione. — Quarantaquattresimo...
— Marisa! Hai visto bene, Marisa?
— Sì, Guido. Quarantaquattresimo.
Dio degli eserciti, aveva vinto. Per il rotto della cuffia, ma aveva vinto. Trascinò Marisa fuori dal palazzo, quasi correndo. Aveva vinto! Che sciocco era stato a tormentarsi intorno a pensieri indegni d’ogni bravo cittadino. Il sistema era buono. Il sistema era giusto! Ognuno poteva farsi strada nella vita, bastava dimostrare le proprie capacità, il proprio valore. Tutto merito della Tecnocrazia.
Guido Alberici sorrise felice. Non avrebbe più lavorato giù nelle fogne, ma all’aperto, alla luce del sole. Il posto di spazzino municipale di seconda classe era suo.
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