Potrebbe forse sembrare che l’ingegneria genetica sia tra le cose meno poetiche che esistano. Andare a infilare il bisturi in quella delicata doppia elica che custodisce il nostro patrimonio genetico, fino a violare gli anfratti della nostra identità nascosti tra le pieghe dell’acido deossiribonucleico, avrebbe fatto inorridire generazioni di scrittori, artisti, filosofi. Eppure, non va dimenticato che fu il romanticismo inglese a lanciare il primo romanzo di “ingegneria genetica”, quel Frankenstein di Mary Shelley (moglie, va ricordato, del poeta romantico per eccellenza, Percy Shelley) che molti storici della fantascienza annoverano a buon diritto tra i primi romanzi del genere. E dalla placida Inghilterra della belle époque veniva anche L’isola del dottor Moreau di H.G. Wells, fanta-horror di incubi darwiniani la cui morale ammonitrice di fondo faceva il paio con quella della Shelley. E ancora, britannico era Aldous Huxley che nel 1932 fu capace di immaginare gli orrori de Il mondo nuovo, in cui il modello fordista della produzione a catena veniva applicato agli esseri umani, figli di una distorta eugenetica che avrebbe affascinato i più deliranti sogni dei gerarchi nazisti. All’epoca di queste storie, oggi diventate cult, non era ancora stato scoperto il segreto del DNA, svelato da Watson e Crick nel 1953; ma già si immaginavano le enormi e inquietanti potenzialità che la natura avrebbe potuto offrire all’Uomo una volta conquistata l’ultima frontiera, quella della vita.
Così, l’ingegneria genetica – pur nella sua fredda consapevolezza positivista – non ha mancato di ispirare autori che hanno scritto pagine indimenticabili. In questa tradizione spiccatamente britannica rientra anche Kazuo Ishiguro che, a onta del nome e delle origini giapponesi, è inglese quanto e forse più di Elisabetta II. Dal suo Quel che resta del giorno (1989), spaccato di un’Inghilterra ormai scomparsa di lord e maggiordomi, James Ivory ha tratto un riuscitissimo film. Ora è il turno di Mark Romanek, scafato regista di video musicali e spot pubblicitari, che torna al grande schermo dopo otto anni (l’ultimo suo film era stato One Hour Photo con Robin Williams) per trasporvi Never Let Me Go (in italiano Non lasciarmi), romanzo distopico di Ishiguro del 2005, acclamato da pubblico e critica.
Fantascienza? La storia si ambienta in realtà in una linea temporale parallela alla nostra: siamo negli anni Sessanta e l’umanità ha firmato un patto col diavolo grazie all’ingegneria genetica, in base al quale esseri umani vengono clonati e “allevati” fino alla maggiore età, per poi diventare donatori di organi e permettere così di estirpare il cancro e numerose altre malattie, estendendo la speranza di vita a oltre cento anni. Un’ucronia, dunque, ossia una storia ambientata in un universo alternativo, inevitabilmente distopico: un incubo a occhi aperti per i donatori, che scoprono da ragazzini il loro tragico destino; un sogno per tutti gli altri esseri umani, che per soffocare ogni scrupolo di coscienza si convincono che i donatori non siano umani ma, in quanto cloni, privi di anima, come gli Indios scoperti da Colombo. O come gli animali da allevamento.
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