La Germania, con gli inizi degli anni Dieci del Novecento, e dopo la catastrofe della Prima Guerra Mondiale, fu protagonista della nascita di un filone artistico variegato che abbracciava la pittura, l’architettura, la letteratura e il cinema e che prese il nome di Espressionismo. Nell’accezione filmica il movimento fu chiamato Cinema Espressionista e si manifestò principalmente dal 1910 fino ai primi anni Trenta. I registi espressionisti proponevano un cinema del tutto nuovo, basato sulla trasfigurazione psicologica della realtà che veniva così raffigurata con esasperazioni prospettiche, con un utilizzo espressivo della luce, del trucco e della recitazione degli attori. Gli stessi argomenti delle storie, che non di rado sfociavano nel genere horror, erano improntati a un anti realismo teso a render conto della frustrazione psicologia e dell’inadeguatezza dell’uomo moderno, dei suoi incubi e allucinazioni, se non addirittura delle sue  degenerazioni psicotiche.

Registi come Paul Wegener, Robert Wiene, Fritz Lang, Friedrich Wilhelm Murnau, solo per citare i più noti, portarono sullo schermo le angosce collettive di una Germania che stava cominciando a sprofondare nel periodo più buio della sua storia. Questi film, dalle atmosfere surreali e orrifiche, fecero largo uso di effetti speciali acquisiti dal bagaglio di esperienze del cinema primitivo. Sovraesposizioni, doppie esposizioni e mascherini furono utilizzati largamente e abbinati a un uso straordinariamente espressivo delle ombre e delle luci.

Un’assoluta novità fu poi introdotta dal Direttore della Fotografia Eugene Schüfftan, in seguito premiato con l’Oscar di categoria (The Hustler, 1962). Schüfftan ideò un geniale sistema di ripresa che combinava l’uso di modellini in scala con la ripresa dal vivo di attori e scene d’azione. La Macchina da Presa filmava davanti a uno specchio posizionato a 45° del suo asse ottico; lo specchio debitamente preparato, lasciava intravedere parti in trasparenza dietro le quali si filmava l’azione reale. La parte specchiata, invece, rifletteva un modellino in scala o una pittura (Matte painting), che aveva il compito di replicare scenografie colossali, i cui costi sarebbero stati esorbitanti. 

È singolare notare che questa tecnica, utilizzata mirabilmente in Metropolis (Fritz Lang, 1927)[1], era ancora ignota a Hollywood che, proprio in quegli anni, approntava progetti filmici con budget da capogiro e che prevedevano la costruzione di scenografie mastodontiche solo parzialmente abbinate a tecniche di mascheratura.

Il cosiddetto “effetto Schüfftan” (Schüfftan process) fu poi lungamente utilizzato anche a Hollywood ed è stato sempre considerato un ottimo espediente scenotecnico, la cui utilità è tramontata solo con l’avvento delle nuove tecnologie digitali basate sul Chroma Key.

Mentre in Germania si consumava la stagione espressionista, dall’altra parte dell’oceano la primordiale organizzazione della produzione cinematografia si trasformava in sistema industriale che prevedeva anche l’apertura di specifici dipartimenti dediti alla creazione degli effetti speciali. Furono proprio i grandiosi progetti cinematografici hollywoodiani di quegli anni a richiedere competenze sempre più specifiche proprio nel settore della scenotecnica.  

Nel 1923 Cecil De Mille realizzò il kolossal The ten Commandaments, il cui climax consistette nella scena dell’apertura del Mar Rosso. Questa sequenza fu realizzata tramite la costruzione di un’enorme vasca d’acciaio a forma di “U” - e adattata dagli scenografi come superficie marina - che fu poi filmata mentre milioni di litri d’acqua la allagavano da entrambi i lati. Riproducendo poi la pellicola al contrario si ottenne l’effetto di apertura del mare; un trucco che resta ancor oggi stupefacente[2].

Qualche anno dopo uscì il Ben Hur di Fred Niblo (1925) che utilizzò la tecnica de Matte travelling per creare le scenografie superiori dello stadio nella celebre scena della corsa delle bighe: la parte in basso dell’arena, con alcuni gradoni che ospitavano una parte del pubblico, fu costruita in dimensioni reali; il gigantismo delle architetture poste nelle parti superiori dello stadio fu realizzato invece tramite maquette in miniatura riempite con migliaia di piccole figure meccaniche che interpretavano la folla[3].

L’altra tecnica che si stava imponendo in quegli anni era il Matte Painting che consisteva nel creare pannelli di grandi dimensioni all’interno dei quali si pitturavano passaggi, scenari e ambienti metropolitani e che poi venivano adattati al set dagli scenografi e dal Direttore della Fotografia. Un esempio mirabile delle prime applicazioni di tale tecnica sono le scene del film Noah’s Ark (Michael Curtiz, 1927) dove una gigantografia dell’arca di Noè campeggia in background mentre sul proscenio si muovono animali e figure.