L’acqua gocciolava dal tetto e dalle finestre non impermeabili. Il sole fece capolino attraverso i pannelli di plastica. C’era un arcobaleno. Era molto bello, ma mio padre era intrappolato nel bel mezzo della tenda con dei robot assassini di guardia all’esterno. Diede fiato a un’imprecazione scatologica, quindi con enorme cautela fece marcia indietro in mezzo ai frammenti e ai frantumi sparsi per terra, preceduto dal suo culone da elefante. Ora fu lui a sentire sulle pareti di legno della scrivania le vibrazioni di una risata soffocata.

– Cosa-Ti-Fa-Ridere-Ora?

– Tu non conosci questo fiume –  sussurrò mia madre. – La Dea del Gange ci salverà, alla fine.

Come di consueto la notte scese rapida sulle sponde del fiume sacro e la stessa luna pigra che ora illumina il mio racconto sorse dai pannelli di plastica graffiata della finestra. Mio padre e mia madre erano in ginocchio sotto il tavolo,  fianco a fianco, con le braccia dolenti e le ginocchia straziate. 

Mio padre disse: – Lo senti questo odore? 

– Sì –  sussurrò mia madre.

– Che cos’è?

– Acqua –  disse, e la vide sorridere in quel chiaro di luna pieno di pericoli. Allora udì il risucchio della sabbia quando beve, il sibilo dell’infiltrazione, ma l’arsura del terreno non era sufficiente, c’era troppa acqua, troppo veloce, troppa, troppa, era un’inondazione. 

Mio padre ne sentì l’odore prima di veder scorrere sotto il bordo della tenda, attraverso il rivestimento e intorno alle sue dita, la striscia d’acqua orlata di sabbia, paglia e detriti della confluenza su cui l’accampamento sorgeva. 

Odore di terra liberata. Era il consueto odore del monsone, quando la pioggia rilascia il vero profumo, l’aroma e il sapore di tutto ciò che è secco; l’odore dell’acqua, che è l’odore di tutto quello che l’acqua libera. La striscia divenne uno strato, l’acqua fluiva attorno alle dita, alle ginocchia, e anche intorno alle gambe del tavolo, simili ai pilastri di un ponte. 

Papà sentiva la mamma sbellicarsi dal ridere, poi la piena sfondò un lato della tenda e lo sbalzò, lo stordì e lo sommerse sotto un muro d’acqua; si sentì soffocare e iniziò a sputacchiare, cercando di non tossire per paura degli infidi ricognitori. Quindi capì perché mia madre rideva e si mise anche lui a ridere di cuore, forte, espellendo dai polmoni l’acqua del Gange.

– Coraggio! – gridò, tirandosi su e capovolgendo la scrivania; ci si buttò sopra come se fosse una tavola da surf, afferrando le gambe con entrambe le mani. Mia 

madre s’immerse aggrappandosi al tavolo, proprio quando un’ondata travolse un lato della tenda trascinando via nella piena la scrivania coi fuggitivi.

 – Batti le gambe! – gridò mio padre mentre manovrava il tavolo verso la porta, che era sul punto di cedere. – Batti le gambe se ami la vita e la Madre India! 

E così furono fuori nella notte, sotto la luna. La sentinella sfoggiò tutti i suoi aggeggi micidiali, una lama dopo l’altra, e si lanciò al loro inseguimento, ma fu investito, travolto e trascinato via dall’acqua in piena. L’ultima cosa che si vide di lui fu la corazza conficcata per metà nella sabbia, con l’acqua che attorno si faceva spumosa come panna. Si spinsero attraverso i relitti galleggianti del campo, mobili e pacchi di razioni, medicine per bambini e componenti tecnologici, corpi di ricognitori fusi e in corto che emettevano scintille, e infine, i cadaveri gonfi dei soldati e dei medici che galleggiavano in tondo. 

Avanzarono battendo le gambe, sul tavolo che procedeva a scossoni, annaspando e picchiando i denti nelle acque verdi e profonde della Madre Gange, seguendo sotto la luna piena il corridoio argenteo del suo riflesso sul fiume. 

A  mezzogiorno del giorno dopo, lontani dalla spiaggia fluviale di Chattigarh, furono trovati da un gommone di una pattuglia indiana, che li issò a bordo e li trascinò sul fondo della barca, disidratati, con la pelle spaccata e impazziti per il sole. Nel corso di quella lunga notte, quand’erano sotto il tavolo oppure mentre erano trasportati dalla corrente, i due a un certo punto si erano innamorati. Mia madre diceva sempre che era stata la cosa più romantica che le fosse mai capitata. La Dea del Gange aveva alzato le acque e li aveva portati in salvo su una zattera miracolosa attraverso le macchine assassine. O almeno così recita la storia di famiglia.