Mi convinsi a scriverlo: un po’ una sfida con me stesso. Se il Moras aveva in pratica un unico personaggio, stavolta scelsi il romanzo “corale”. Ovvero un’opera con numerosi protagonisti dei quali si seguono alternativamente le singole storie, ciascuna dal punto di vista del suo personaggio principale. E qui nascono vari problemi. Nel romanzo corale, a differenza di quello con uno o due protagonisti, c’è anzitutto il rischio che il lettore non trovi un personaggio nel quale identificarsi. Il che può avere effetti molto negativi. Oppure può accadere che le varie storie si confondano nella mente, durante la lettura. Perciò è necessario creare comunque un personaggio principale che si distacchi dagli altri; e le storie devono essere ben definite e differenti tra loro (sebbene adiacenti), e possibilmente originali, per imprimersi meglio nella memoria di chi legge.

Altre storie invece potevano avere un percorso conclusivo autonomo.
Nuovo interrogativo: finale definitivo, catartico (in bene o in male), o finale aperto?
Sebbene non molto convinto, scelsi quello aperto. Molti lettori non lo amano, non dà loro la percezione di un completamento, com’è d’abitudine. Pensai però che si addicesse quasi naturalmente a una storia corale: le vite, gli eventi, non hanno mai una “conclusione”. La vita continua sempre (per chi sopravvive), e basta. E in realtà, non vedevo io stesso come i personaggi, le situazioni, il contesto, potessero smettere di avere una loro storia. L’amico Salvatore Proietti mi ha fatto notare che nella fantascienza classica era fondamentale lo scioglimento, il “finale” (e forse per questo fioriva anche lo humour); mentre in quella recente è più essenziale la presentazione del mondo: l’enigma in sé, più che la sua risoluzione.
Mi trovo pienamente d’accordo.
È evidente che un romanzo di 500 e passa pagine difficilmente riesce a mantenere costante una tensione alta. Ma proprio per la lunghezza del testo, e specie se lo svolgimento è avventuroso o movimentato, momenti di riflessione sono talora necessari. Prender fiato, insomma. E qui ci si può attardare – entro certi limiti – nel descrivere una nuova tecnologia, o strani fenomeni fisici, un insolito panorama o quant’altro sia opportuno.
Resta un ultimo momento cruciale: il montaggio a mosaico degli spezzoni delle varie storie. Quale deve funzionare come incipit fra le storie, quale evento o personaggio è il caso di presentare in apertura: un momento che non va sottovalutato, perché decide come e cosa si troverà davanti il lettore. Se volterà la pagina o la chiuderà.
Spero d’aver tratteggiato in modo chiaro quelle che, a mio parere, sono alcune caratteristiche principali di un racconto e di un romanzo. Spero anche che siano evidenti le differenze. Per fare un altro paragone musicale: sarebbe come voler comparare un preludio a una sinfonia. Il Preludio n. 1 del Clavicembalo ben temperato di J.S. Bach e la Sinfonia n. 3 di Gustav Mahler durano all’incirca, rispettivamente, 5 e 80 minuti. Sono entrambi capolavori (ovviamente siamo a Bach e Mahler).
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