Carmine Treanni mi ha chiesto di scrivere alcune riflessioni, dal punto di vista dello scrittore, sulle differenze tra “racconto” e “romanzo”, proponendomi di richiamare – eventualmente – esempi, tratti anche da mie opere.
Lo ringrazio per questa proposta, che ritengo interessante anche perché mi dà occasione di chiarire l’insussistenza di alcune radicate prevenzioni nei lettori, specie in Italia, nei confronti del “racconto”, e anche verso il “romanzo corale”.
Mi esprimerò con un linguaggio non da addetti ai lavori ma “pratico”: ovvero indicherò quali sono (a mio parere) alcuni punti chiave ai quali si attiene chi – con un foglio di carta o uno schermo davanti – voglia scrivere narrativa. O anche voglia solo leggerla, ma in maniera un tantino più consapevole dei suoi meccanismi.
Ci sono diversità anche notevoli tra lo scrivere un racconto e un romanzo, e non si tratta solo del numero decisamente differente di pagine, o del doversi inventare storie molto lunghe, o di quanti personaggi è opportuno mettere in scena.
Anzitutto vi sono differenze di finalità. Il racconto nasce quando si vuol narrare il verificarsi di un evento: è la fotografia di un fatto, realistico o fantasioso che sia. Che si scriva a fini di semplice divertimento o con intenti allegorici o altro, la sostanza non muta. Il racconto è un’arte delicata. Solitamente va da una-due pagine – racconto brevissimo – a una diecina, e siamo al racconto breve; oltre la trentina si comincia a parlare di racconto lungo, poi di romanzo breve. Proprio per le sue ridotte dimensioni, il racconto richiede un’attenta misura nei dettagli. Le parole devono essere pesate e poste nei punti giusti. Tema e scenario vanno ben espressi e adeguatamente costruiti; i personaggi caratterizzati subito, in poche battute. Se in un romanzo è sopportabile una descrizione di una o due pagine – ma non è in genere consigliabile – in un racconto breve ciò potrebbe provocare una sensazione di staticità, e sbilanciare la dinamica dell’insieme. A meno che il tutto non sia impostato, appunto, sulla descrizione: in questo caso occorre davvero un buon mestiere per mantenere un’adeguata leggibilità complessiva. I dialoghi aiutano molto a vivacizzare, ma vanno inseriti nei punti opportuni dando un’impressione di naturalezza senza scadere nel banale. Un buon dialogo ha bisogno insomma di spontaneità, deve sembrare “vero”, anche se – può apparire paradossale – occorre evitare ciò che avviene spesso nei veri dialoghi: la presenza di ripetute esclamazioni, o inutili intercalari tipo: “ehm”, “sai”, “senti”, e altri analoghi. Inoltre – nota importante – occorre evitare l’uso del dialogo per “spiegare” indirettamente la storia. Quest’ultimo punto vale anche per i romanzi, e denuncia un errore: non essere riusciti a illustrare attraverso gli eventi narrati. ciò che è accaduto. Su questo argomento c’è un detto che suona più o meno così: “bisogna mostrare gli eventi, non descriverli”. Con i dialoghi, peraltro, si possono fornire informazioni utili ai relativi interlocutori per il proseguimento della storia. O possono risultare utili a meglio caratterizzare il personaggio che parla.
Nell’avanzare della narrazione, dunque, si sviluppano lo scenario, le azioni dei protagonisti (di solito, due o tre) e va costruita una sorta di tensione che dovrà raggiungere un suo apice, per poi sciogliersi nella conclusione. Il finale necessita di una sua originalità, evitando di risultare prevedibile e suggerendo l’impressione d’una completezza dell’insieme, anche quando si usano i finali cosiddetti “aperti”.
Se tutto ciò avviene in poche pagine, è evidente come il racconto sia un modello espressivo con sue leggi e difficoltà: dire tutto quanto si deve dire – e suggerire quanto va suggerito – in poche parole nella giusta sequenza, risultando “credibili” e suscitando un’emozione.
Va chiarito che queste regole empiriche – anche quelle di cui dirò in appresso – possono talora essere ignorate, se non stravolte. Non suoni un controsenso, ma la narrativa non è una scienza esatta e soprattutto è molto legata alle epoche, ai generi, e oggi ai capricci del mercato editoriale nonché a quelli dei lettori. Un autore davvero bravo può riuscire a far di tutto. O quasi. Ma attenzione, anche qui val la pena ricordare ciò che diceva il compositore Igor Stravinskij a chi voleva scrivere musica sperimentale: “Prima devi imparare bene le regole del comporre, poi potrai buttarle in mare”.
Vorrei soffermarmi sulla mai sopita querelle “racconto vs. romanzo”.
È diffusa opinione che il racconto sia un modello narrativo incompleto o quanto meno “minore”. Insomma la brutta copia (o il riassunto) di un romanzo; magari un riassunto maldestro. Ovvero, l’autore incapace di scrivere romanzi… che fa? “Ripiega” sul racconto.
Nulla di più assurdo, in tema di narrativa.
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