Esistono vari modi di punire chi ha violato la legge. Nella città di Eudemonia (greco antico per felicità), ne hanno escogitato uno particolare: si può evitare il carcere aderendo al Progetto Banishment: il condannato verrà infilato in un'anonima tuta di lattice, gli verrà imposto un casco al cui interno un'intelligenza artificiale controllerà ogni sua mossa, dovrà obbedire a una serie di regole. Ma sarà libero.
Una forma di espiazione molto più umana, dunque, che in breve tempo ha fatto popolare la città di Bane, detenuti liberi di circolare come meglio credono, sebbene non possano comunicare in alcun modo né con i normali cittadini né fra di loro. Eppure la giornalista Kathrina Nichols non è convinta che il progetto sia così limpido. Decide di indagare, ma ogni suo tentativo di scoprire cosa c'è sotto si infrange contro un muro di gomma. Fino a che un giorno una Bane le lascia una scritta nel fango: Eudeamon. Incuriosita, Kathrina scopre che la parola vuol dire spirito, un demone o un angelo benevolo, ma le indagini si arenano qui. Poco o niente, per una giornalista. Così Kathrina decide di rischiare tutto e di diventare lei stessa un Bane, scambiandosi di posto con una detenuta.
È così che inizia l'inferno. L'inchiesta giornalistica si trasforma presto in una vera e propria lotta per la sopravvivenza. Al termine di un umiliante processo di preparazione, in cui avviene qualcosa di scioccante per Kathrina, qualcosa che la cambierà per sempre, il nuovo Bane viene gettato in mezzo alla strada, dove scopre cosa vogliono dire parole come solitudine, isolamento, noia, pericolo, lotta per la sopravvivenza e per il territorio. La gente fa finta che i Bane non esistano, i Bane fra di loro si comportano secondo la legge del più forte. Tutti contro tutti. Senza contare che ogni violazione alle molte regole imposte dal Progetto genera automaticamente un'estensione della pena.
Sprofondata in una prigione senza mura, ma costrittiva al di là di qualsiasi immaginazione, Kathrina si ritrova a misurarsi - volente o nolente - con le sue più profonde paure. Non si tratta più di resistere per portare a termine un'indagine. Bisogna riuscire a non impazzire, ancora prima che sopravvivere, ricordandosi ogni momento la propria natura di essere umano, per non scendere nei pozzi neri della follia e dell'abiezione. Eppure è proprio dal buio più totale che scaturisce la luce, in un percorso di dolorosa esplorazione del sé e di espiazione, che si prolunga - nel finale - fino alla redefinire i confini stessi dell'umano.
Esordio per Erika Moak, americana classe 1975, Eudeamon è stato per lungo tempo un semplice file postato sul sito dell'autrice. Un romanzo scritto per diletto personale, eppure scaricato da migliaia di persone con un consenso montante che ne ha determinato un curioso destino che passa da Second Life per arrivare alla carta, ma solo in Italia (l'unica edizione non virtuale esistente, stampata per i tipi della casa editrice zero91). La genesi del libro è una storia facilmente reperibile in rete, per cui non ci soffermeremo su di essa. Ma da qui scaturisce tutto.
Eudeamon è infatti un lavoro profondamente radicato nella cultura cyber, con un cordone ombelicale che riporta direttamente al cyberspazio di William Gibson, un legame in un certo senso reciso nel momento in cui quello spazio informatico viene trasformato in uno spazio interiore, più umano, ma sempre tecnologico, nella misura in cui si riprende il tema dell'innesto cibernetico, del organismo ibrido uomo-macchina. Inoltre Kathrina ricorda da vicino gli eroi ai margini della società tipici di tanta letteratura cyber, a John Case in poi, che fanno della tecnologia uno strumento di ribellione o quantomeno di presa di consapevolezza.
Il suo isolamento all'interno del Bane richiama inoltre la tuta disindividuante usata da Bob/Fred in Un oscuro scrutare per nascondere i propri lineamenti e rendersi irriconoscibile. Mentre però là si parla di una forma di mascheramento voluta, in Eudeamon la divisa è sinonimo di isolamento imposto e radicale. Di annullamento, insomma, che riporta Kathrina al punto di partenza, allo stadio zero, dove confrontarsi con se stessa senza via d'uscita, senza le distrazioni della società moderna - che pure rimane lì, davanti agli occhi del Bane, distante anni luce - grazie alle quali possiamo sempre rimandare, non guardare, vivere sulla superficie in un perenne stordimento dei sensi.
Ed è proprio nel racconto del travaglio interiore, del cammino dalla perdita al ritrovamento del senso, che la Moak da il meglio di sé. La dimensione del Bane diventa l'occasione per raccontare di ciò che è più importante, dei sentimenti più basilari ma vitali, amore e odio, amicizia, solidarietà, ricerca della felicità. L'autrice affronta una materia così vasta senza divagare, mantenendo le parti più introspettive saldamente ancorate a un intreccio comunque avventuroso, dove non manca azione e sopresa, anche e soprattutto nel finale.
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