-100-Mi riscopro a fissarla negli occhi, in un pomeriggio disperso nelle volute nebulose del tempo, in un luogo distante anni-luce dall’orrore senza forma che mi circonda. Vincendo le lusinghe insistenti della guerra, mi abbandono alla contemplazione del suo volto etereo, dal sorriso diafano e rasserenante. Quale luce abbagliante le arde nell’anima! E che grazia soave sembra emanare da ogni suo gesto…Nel campo della percezione, il clamore della battaglia si traduce in una eco remota. Espressioni fuggenti di volti distrutti, schiene piegate che mai più si alzeranno e spasmi di morte vengono relegati ai margini della mia sfera sensoriale. E torno a guardarla.I suoi occhi esprimono un’armonia geometrica senza paragoni. Baciandola, scivolo sulla curvatura neperiana delle sue iridi, oltrepasso l’orizzonte degli eventi dello sguardo e mi immergo nell’agata screziata d’ambra della sua anima. Così dolce.Così remota…
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Avanzo a passi lenti e pensosi attraverso un terreno cosparso di cadaveri e rottami. Sono i resti della battaglia, i residui del gioco. Il campo dell’epico scontro ha assunto ora la forma spettrale di un cimitero cosparso di resti carbonizzati e fumanti. Lamiere si fondono alla carne rinsecchita e bruciata, in questo scenario di morte e desolazione. Il ronzio di componenti che non combaciano è una misera ombra dell’antica gloria funzionale di congegni tirati a nuovo e in perfetta efficienza. Neanche il sangue tanto copiosamente versato basterebbe a lubrificare meccanismi ormai distrutti. Neanche i miracoli del metallo organico potranno restituire la vita e il movimento ai corpi consegnati alla morte.
Con andamento zoppicante e fiero, raggiungo il corpo dell’angelo abbattuto. Fiamme superstiti continuano a divorare il suo ventre e la pelle di collagene candida come porcellana: messi a nudo, i congegni ad orologeria del suo meccanismo interiore scattano oscenamente. Le sue membra stremate, eppure ancora indomite, provano a risollevare dalla cenere del campo la reliquia scordata del suo corpo logoro. Infine l’angelo si arrende, e giace abbattuto su un cumulo d’ossa, scrollato da un tremito cibernetico. Colto da improvviso desiderio, vincendo il ribrezzo mi piego sul suo corpo morente: il viso di angelo si scuote dalla sua impassibilità serafica e pare quasi implorarmi. Incapace di resistere, avvicino il mio volto sfigurato alla intatta compostezza delle sue gote e affondo la mia lingua in lei. Sospesa nell’umida interfaccia della bocca, la scintilla del piacere esplode in una fiammata azzurra, mentre l’ultimo respiro le muore in gola. Negli occhi vitrei, sopravvive la difficoltà nel realizzare il senso della sua sorte crudele.
Sopraffatto dalla stanchezza, faccio appello a tutte le mie forze per risollevarmi in piedi.
Mi trascino stremato verso la mia lancia in attesa del suo cavaliere. Le estroflessioni semiorganiche si ritirano dal terreno da cui hanno assorbito gli elementi indispensabili alla rigenerazione delle parti danneggiate. Finalmente è di nuovo in assetto. I circuiti di identificazione mi riconoscono, la monade di controllo centrale si sintonizza sulle frequenze delle mie emissioni coscienti.
Sfreccio attraverso il deserto.
Diretto da Lui.
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Il Castello dell’Arconte è la Torre del Tempo. Solitaria e imponente, si erge nel mezzo dei territori senza legge della sera, e quello che incombe sulla sua struttura troneggiante contro le nubi è un crepuscolo senza fine.
Impavida, la lancia corre verso il monolito.
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