Antonio Margheriti
Antonio Margheriti
Lo stesso Margheriti, prima di diventare un “serial director”, aveva esordito nel 1960 con Space Men, film di livello discreto che provava almeno a raccontare una storia, frutto anche della collaborazione di Ennio De Concini, uno degli sceneggiatori più esperti del panorama di quegli anni. Ma neanche il processo di rivalutazione del trash italiano che si svolge a partire dagli anni novanta è in grado di salvare questi film dal loro difetto di fondo; quello di utilizzare i temi fantascientifici in modo assolutamente superficiale, come banali cliché da inserire in storie appena accennate, nella convinzione che la sola parola, “fantascienza”, la sua sola idea evocata in qualche titolo ad effetto, costituisse un automatismo sufficiente per accostare quella pellicola ai classici del genere che già si potevano scorgere nella cinematografia americana. La scarsità di mezzi a disposizione dei cineasti, di per sé, non poteva costituire una giustificazione sufficiente, in quanto la fantascienza si nutre principalmente delle idee che, come si sa e come è stato dimostrato molte volte, sono ancora e per fortuna una risorsa che non incide troppo sui budget. Il fatto che buona parte di questi film vennero girati per il mercato americano, dove furono anche proiettati, non è servito a nascondere la sostanziale inesistenza di un’idea precisa del genere (infatti si spacciavano come film fantascientifici anche drammi mitologici e storie fantastiche e paranormali, che con il concetto di fantascienza avevano poco da dividere). Segnale che il genere, nonostante il buon successo di vendite delle collane di romanzi da edicola come Cosmo e Urania, faceva fatica a trovare una propria identità culturale in un paese come l’Italia, in cui l’idea della scienza era, secondo l’impostazione di Benedetto Croce, quella di una materia per tecnici e ingegneri, e non per intellettuali. La conferma di questa visione e di questa “fatica” a emergere si trova anche in quei pochi film del periodo che tentano un approccio più intelligente e artistico.Il cinema italiano si affaccia agli anni sessanta dopo il grande periodo del neorealismo e la successiva esplosione della commedia all’italiana, felice sintesi tra visione drammatica e farsesca delle vicende umane e, probabilmente, unica sua vera innovazione del dopoguerra. Il forte accento sulla critica sociale che caratterizza il cinema italiano di quegli anni si travasa quasi spontaneamente anche nelle poche opere fantascientifiche che provano ad alzarsi sopra la media. È il caso di Omicron, firmato da Ugo Gregoretti nel 1963, la storia di un alieno entrato nel corpo di un operaio e che finisce per coinvolgersi nella lotta di classe. Oppure di Il disco volante, opera del 1964 del giovane Tinto Brass: in questo caso l’extraterrestre atterrato in un paesino del Veneto viene visto come elemento disturbatore dello status quo, a cui il potere reagisce insabbiando il caso e internando in manicomio i testimoni. Entrambi i film usano l’elemento fantascientifico rappresentato dell’essere di un altro pianeta come “strumento” di rottura di un determinato equilibrio, come chiave per aprire la serratura della società attraverso il filtro costituito dagli schemi classici della commedia all’italiana; non a caso gli attori principali dei due film, rispettivamente Renato Salvadori e Alberto Sordi, sono tra i migliori interpreti della satira di costume di quegli anni. Al di là della totale assenza di qualsiasi analisi scientifica, in entrambi i casi manca del tutto il vero elemento di rottura del genere sci fi, costituito dalla capacità di mostrare un’ipotesi in grado di alterare gli equilibri e cambiare i comportamenti. Nei due film accade esattamente il contrario: gli equilibri esistenti non vengono modificati ma anzi, fagocitano la novità “aliena” riconducendola in un modello consolidato e quindi annullandola. Diventa pertanto prevalente la critica a una società chiusa, immobilizzata nei suoi rapporti di forza; la visione pessimistica dell'incapacità a farsi scalfire da qualunque evento che suona tutt’oggi attualissima. Si discosta appena da questi canoni La decima vittima, diretto nel 1965 da Elio Petri, uno dei registi più attenti alla critica sociale. Tratto da un racconto del maestro inglese Robert Sheckley e sceneggiato da Ennio Flaiano, il film è il miglior omaggio reso dal nostro cinema al filone sociologico che, inserendosi nel movimento della new wave britannica, rinnova il genere a partire dalla metà degli anni sessanta. Anche in questo caso la vicenda di una società futura divisa tra cacciatori e vittime e nella quale l’omicidio è legalizzato, pur nella discreta fedeltà al racconto di Sheckley, non approfondisce molto l’analisi delle conseguenze dello sviluppo sociologico, abbandonandosi parzialmente al solito filtro costituito dalla brillantezza delle atmosfere da commedia. Risulta comunque un tentativo gradevole di trattare la fantascienza per quello che è, ovvero estrapolazione di idee, aiutato in ciò dallo sforzo fatto dagli interpreti (un’improbabile Marcello Mastroianni biondo e Ursula Andress) di calarsi nella vicenda.