Nel 1973, in una nota biografica ad uso del suo editore (perciò scritta in terza persona), Philip K. Dick diceva di sè: "il cittadino comune, privo di potere economico e politico, è l’eroe di tutti i suoi romanzi, oltre a essere il suo eroe personale, e la sua speranza per il futuro". E i suoi lettori hanno imparato a familiarizzare con quell’eroe quasi onnipresente, con quell’“Horselover Fat” che in Valis realizza d'essere solo l’ingenuo pseudonimo del suo stesso autore Philip Dick. È un tipetto comune, pigro, patetico, amante della musica classica e della letteratura tedesca, vessato dalla paranoia e impreziosito da un nugolo insidioso di riferimenti autobiografici, persino involontari.
Dick, in un pezzo per la fanzine Lighthouse (Sarà mai perfezionata la Bomba Atomica? e se si, che ne sarà di Robert Heinlen?, 1966), descriveva come “di gran lunga più belle e degne" proprio "le piccole, silenziose, insignificanti creature". Ma a ben guardare, nelle trasposizioni filmiche delle sue opere, le “dramatis personae” confezionate per il grande schermo finiscono intruppate negli stereotipi degli eroi hollywoodiani, cicca tra i denti e stivali, pur di innescare noiosi meccanismi mitopoietici. Il cinema americano, è cosa nota, ingigantisce, deforma, colorisce. “Sarebbe bello se solo la smettessero di far saltare in aria quelle stazioni orbitanti” commentò Dick (“Artefici (e distruttori) di universi”, SelectTvGuide, 1981). “I film di SF non finiscono mai con un mugolio, bensì sempre con un'esplosione.” Poi alla fine, dimostrando di prenderla fin troppo bene, aggiungeva: “E forse così dev’essere, nella migliore delle galassie visive”. Il problema non è il risultato finale (che può essere encomiabile, come Blade Runner, pur allontanandosi dal romanzo originale), quanto piuttosto il margine di confronto libro-film che sopravvive. A dispetto dell’ “eroe personale” dei romanzi, la versione in celluloide del protagonista può acquisire tinte fosche e lunghi silenzi degni di un anti-eroe hardboiled, trasformarsi di punto in bianco, da inconsapevole protagonista in ruvido e nerboruto calcolatore, capace di disinnescare, a suon di legnate ed esplosioni, l'intreccio originale della fabula.
“Mi sono stancato delle persone che alla fine si rivelano robot” dirà Dick nello pezzo citato “e soprattutto delle battaglie delle Midway rivisitate nello spazio”. E purtroppo le più estreme conseguenze delle tante “licenze poetiche” hollywoodiane, hanno prodotto Paycheck (diretto da John Woo, 2003), nel quale il brillante ingegnere Michael Jennings (Ben Affleck) è talmente un “uomo comune” da rimorchiare con disinvoltura pin-up, giganteggiare nell’arte marziale del bojutsu, elargendo un fracco di botte a plotoni di malcapitati, e si fa beffe persino dei suoi inseguitori, con rocambolesche fughe in motocicletta, che quasi fanno impallidire il Tom Cruise di Mission Impossibile II (non a caso dello stesso regista). Ed è per questo che vogliamo occuparci di A Scanner Darkly di Richard Linklater, film del 2006 tratto dall'omonimo romanzo di Dick. Perchè, con il dovuto rispetto per i celebri cineasti che si sono confrontati con le opere di Dick, in questo film non solo le stazioni orbitanti non esplodono e non ci sono battaglie spaziali, ma il protagonista, soprattutto, è lo stesso - è il caso di dirlo - povero Cristo del romanzo. E questo, assieme alle tante soluzioni visive non convenzionali, assieme ad un cast serio e non eccessivamente impomatato, ad un setting sobrio e soprattutto in linea con l'originale dickiano, ci garantisce quanto meno un discreto spazio comparativo.
Il libro presenta un mondo distopico (“tutti i telefoni del mondo sono controllati”, ci informa l’autore), e focalizza l’attenzione sulla California flagellata dalla sostanza M (“Morte”), una potente droga anfetaminica. Bob Acrtor è un tossico, e così i suoi amici, con i quali condivide la quotidiana ricerca della dose, gli effetti della dipendenza, la paranoia dell’ arresto. In realtà Bob è un agente della narcotici sotto copertura (nome in codice: Fred); la corruzione dilagante impedisce alle autorità di risalire ai centri di produzione della droga e pertanto, onde evitare le soffiate di eventuali talpe, nessuno conosce la vera identità di Fred grazie ad una peculiare tuta “disindividuante”da lui indossata (“avrebbe potuto esserci chiunque altro lì dentro," scrive Dick in proposito "così come nessuno. Un vuoto”). E così Fred si limita a fare rapporto costantemente ai suoi superiori, vivendo la disperazione e il degrado di un tossico, in tutto e per tutto.
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