Anche il cane era vecchio. Andrew Edwards ricordava il giorno in cui suo padre l’aveva portato a casa loro cucciolo: un grosso, enorme batuffolo di pelo nero incredibilmente ricciuto e morbido che stava dentro una cesta, era, se non ricordava male, un regalo per il suo quindicesimo o sedicesimo compleanno, e il ragazzo ed il cane erano diventati subito grandi amici, di una di quelle amicizie ferree, indissolubili: giocavano insieme, dormivano insieme, mangiavano insieme.Quanti anni poteva avere Bobo? Anche lui doveva essere più vicino ai sessanta che al mezzo secolo. Quanti anni poteva vivere un cane?
Un’immagine cupa, un ricordo angoscioso gli si stagliò di colpo davanti agli occhi, quello di una grande buca che lui stesso stava scavando nel giardino di casa per seppellire il corpo ormai inanimato del povero Bobo, ed i rivoli che gli ruscellavano giù per il volto non erano pioggia. Era il giardino della casa dei suoi, ne era certo, dove era vissuto prima di sposarsi.
Era come uscire da sotto l’ombra gelida di una nuvola particolarmente fitta e tetra e ritrovarsi di colpo sotto un sole sgargiante. Scosse la testa mentre affondava le mani nel nero pelo ricciuto dell’animale a carezzargli la testa e il dorso. Quelle erano ubbie, forse solo il ricordo di un incubo. Bobo era sempre lì accanto a lui, invecchiato ma incontestabilmente vivo.
Si distese sulla sabbia calda sotto i raggi del sole. La sabbia era dorata e fine, ed il suo contatto era un abbraccio quasi sensuale. In quell’abbraccio, Andrew Edwards si sentiva deliziosamente rilassato, non proprio al punto di addormentarsi, ma di concedersi una tranquilla riflessione quasi da dormiveglia intrisa di immagini e ricordi, mentre continuava a percepire con grande intensità Playa Grande tutto attorno a lui: la sabbia, il picchiettare caldo del sole sulla pelle, le voci dei bagnanti che affollavano l’immensa spiaggia – persone di tutte le età, famiglie con bambini le cui vocette allegre avevano tutto il sentore della vita – l’odore salmastro delle onde marine a cui si mescolavano in maniera sottile i mille profumi dei Tropici; il vivace impatto di quell’universo colorato continuava a seguirlo come un caleidoscopio d’immagini residue persino nella penombra delle palpebre abbassate.
Playa Grande: nemmeno avrebbe saputo esattamente dove cercarla sulla carta geografica, tranne il fatto che si trovava sulla costa di uno dei molti stati o staterelli od arcipelaghi di isole grandi e piccole che formavano il mosaico del continente americano dal Messico e dalla Florida in giù, da Key West alla Terra del Fuoco; aveva imparato; questo si, a sostituire l’inglese con le cadenze morbide e le sillabe ricche di vocali della lingua spagnola, ed ancora si stupiva al pensiero di quanta poca fatica avesse fatto, di come imparare una lingua straniera in età avanzata gli fosse riuscito semplice e naturale.
La vita dopotutto era giusta, si disse. Da giovane aveva lavorato duro, aveva risparmiato dollaro su dollaro per arrivare a godersi un’età anziana senza preoccupazioni, quella che si dice una serena quiescenza; aveva anche avuto cura del suo corpo in tutti quegli anni, aveva sempre avuto l’obiettivo preciso di arrivare al pensionamento in buona forma fisica in modo da poterseli godere gli anni della quiescenza, non di trascorrerli in sedia a rotelle o magari allettato e collegato a qualche macchina in una semi – vita che si riduceva ad essere solo l’attesa della morte; ed i suoi sforzi erano stati ripagati: ora era libero da impegni lavorativi, discretamente agiato ed ancora pienamente in grado di godersi l’esistenza, assaporarla come un vino prezioso.
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