All’albore della civiltà, fu la poesia che permise all’uomo di fissare e organizzare il meraviglioso e il mistero che aveva attorno a sé, mettendo per iscritto – in criptici aforismi o versi dal ritmo incalzante – la propria visione del mondo e delle origini dell’universo, investigando la fisica e la metafisica. Così facendo, egli attribuiva un nome alle cose, dava un’organizzazione, una costruzione razionale al “reale”. Cercava, insomma, pur inconsapevolmente forse, di tradurre l’essenza, l’essere nel linguaggio, rendendolo così storicamente e-sistente e forgiando a sua volta la Storia stessa.Questa funzione creatrice e svelatrice della parola si è andata impoverendo man mano che la poesia e il pensiero hanno iniziato a interessarsi solo della technê, non ambendo più a ricercare l’essenza, a custodirne il segreto, ma semplicemente mirando ad assicurarsi una modalità di espressione spicciola, corrispondente al “reale”, prontamente fruibile, ovvero un linguaggio che aderisse alla superficie delle cose, all’ingannevole apparenza. Questo è stato il secondo passaggio di codifica del linguaggio, impostato come uno strumento meramente convenzionale a uso dell’umano, come si delineava in precedenza. Piombata nell’oblio la verità dell’essere (o quanto meno la tensione a essa), l’uomo è stato fautore e spettatore dell’imporsi dell’ente, che tuttavia non è altro che artificio, caduca sembianza, nonché dell’impoverimento del fondamento, dell’anima del linguaggio, specchio del decadimento, depauperamento del pensiero stesso.L’umano di oggi, tronfio di vivere in modalità “Avere”, anziché “Essere” (per dirla richiamando alcuni concetti del pensiero di Gabriel Marcel e Erich Fromm) s’aggira in un mondo che crede saldo e razionale e utilizza il linguaggio come un mezzo assoluto e coerente, mentre in realtà brancola in una fitta e complessa trama di autoinganni, parecchi dei quali si è intessuto da sé. Fu l’Arte che, memore dell’assunto degli antichi greci di essere imitazione umana e imperfetta della natura, che indagò maniere espressive atte a ridare dignità all’essere e al linguaggio. In campo poetico, una corrente artistica esemplare che si sforzò di riportare all’originaria purezza il senso ontologico della parola fu l’Ermetismo italiano, dai suoi primordi che affondano le radici nel simbolismo d’ascendenza francese e nei poeti vociani, fino alle sperimentazioni più recenti.
Non per nulla, il motto che l’Ermetismo adottò fu “poesia come ontologia”, formula coniata da Maritain per indicare il senso ultimo di sfida conoscitiva, la spinta dell’esperienza poetica fino all’estremo limite di un’avventura dello spirito, di una sfibrante ricerca del fondamento, dell’essere, del noumeno. Il poeta, armato di quest’idea, talora con connotazioni tra mistica e orfica, ebbe l’ardire di volersi addentrare, sul piano gnoseologico, nel mistero più fitto dell’universo, laddove persino ragione e scienza – orgoglio dell’uomo dall’Illuminismo in poi – s’erano piegate disarmate e svelare, col solo mezzo della parola, in forza delle sue virtù evocative, il fondamento delle cose, l’origine e il destino, il senso ultimo dell’esistere umano, tanto inquieto tra angustie della carne e aneliti dello spirito. Alla parola, sgravata di ogni incombenza effusiva, decorativa o referenziale, si chiese di compiere un “miracolo” di sapienza (sophia), di squarciare il velo ottenebrato del falso “reale” con una folgorazione, di rimettere l’uomo in rapporto con la verità, con l’essere che l’abita e cui apparteniamo.
Di certo fu un compito improbo, ma almeno fu un valido tentativo di mondare il linguaggio, di restituirgli dignità, nel solco di quanto scrisse Heiddegger nella citazione sopra riportata.
Emblematico a tal proposito anche Ungaretti che, ricordandosi di tale frase e parafrasando Mallarmé, affermò: «l’origine della poesia è il contatto dell’uomo con Dio, è il contatto dell’uomo che non sa, che non potrà mai sapere. Quel contatto così che l’illumina, e in un modo impreciso perché non è dato di conoscere che vagamente il mistero che non sarebbe altrimenti mistero».
“Se l’uomo ancora una volta deve ritrovare la vicinanza dell’essere, deve prima imparare a esistere nell’assenza di nomi”.
(M. Heiddeger, “Lettera sull’umanismo”)
Pensare alla genesi di una possibile poesia postumana, che si avvarrà di un linguaggio ex novo, mi riporta alla mente proprio quest’altra frase heideggeriana, innestata saldamente sulle riflessioni e l’esperienza dell’Ermetismo.
Il postumano, dotato di diverso modo di percepire, sentire, si ritroverà in un mondo in cui indagare l’essenza con la vecchia parola umana non avrà più senso. Cadute le cortine che celavano il falso “reale”, egli si troverà inizialmente nell’assenza di nomi e potrà sfruttare questa condizione privilegiata di vicinanza all’essere e tabula rasa di decodificazioni precostituite, ormai vacue, trovando la maniera più idonea di manifestare poeticamente l’essenza e l’essere stesso.
Se le punte di diamante della poesia umana tramite la parola poetica sono riuscite a rendere soltanto imperfette e labili sembianze dell’essere, il postumano, con la sua nuova visione del mondo e novello voyant egli stesso, potrebbe manifestare l’essere in modalità poetica tramite… codici.
Il punto da indagare, alla fin fine, è proprio questo: codici. Quali saranno i nuovi codici che sosterranno l’esistenza postumana?
È da ritenere assai valida come ipotesi che la matematica, nella sua più alta accezione, quasi filosofica, possa riuscire a fornire una chiave di lettura, di vitalità. La technê precedentemente citata potrebbe guidare verso un’alta prospettiva di comprensione dei sistemi postumani, fornendo una lettura erudita in grado di scoperchiare un vaso di Pandora così sofisticato da sconfinare quasi in quello che l’umanità considera esoterismo (non per nulla l’umano parlava di “mistero” da svelare e custodire). Ragionare per esemplificazione di complesse formule matematiche, che si appoggiano a filamenti di fisica quantistica, sortirebbe un duplice effetto: da un lato, l’esasperazione della raffinatezza mentale dei nostri successori, dall’altro il loro riconciliarsi parzialmente con il punto d’origine da cui il mondo della biologia viene e che qualcuno riesce a raggiungere anche tramite l’uso istintivo della scienza. La poesia tratta proprio di questo: indagare le profondità dell’anima umana e dell’ambiente che permea la vita biologica, alla ricerca di un lontanissimo punto di origine, proprio come gli astronomi sondano le profondità dell’universo alla ricerca del momento di origine, quel big bang che, immateriale, ha prodotto la nostra materialità.
Scienza e Umanismo sono in fondo – nel senso proprio, cioè lì proprio dove si sono originate – unite, così come lo erano in principio, al principio del pensiero (quell’argomentare peri physeos non ancora aggravato da ottuse e sterili distinzioni tra filosofia e scienza); tuttavia esse utilizzano attualmente linguaggi distanti tra loro, spesso ritenuti incompatibili. La poesia del cosmo profondo diverrà vita quotidiana per gli esseri del futuro? Una stringa di fisica quantistica, quale codice che racchiude l’essere, sarà in grado di riflettere il fascino poetico che il mistero dell’esistenza biologica si porta dentro di sé?
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