"... Dopo il combattimento la ricoprimmo di neve perché il peso della morte fosse lieve alla sua spoglia..."
Leon Degrelle - La campagne de Russie
Il pettorale della mia corazza era scoperchiato poco sopra lo sterno, metteva in bella mostra grossi fori di fulminatore automatico, nello strato in lega di magnesio e più sotto, nella ceramica di rinforzo. Dannazione, respiravo come se mi pigiassero i polmoni nella speranza che ne uscisse del buon vino, ma quella non era affatto una buona annata.
Fin dalle prime battute dell’ultima guerra semestrale programmata, poco o nulla era andato per il verso giusto. Io e i miei uomini non avevamo fatto altro che saltare da una zona calda all'altra del Sistema, come se avessimo i piedi nudi sui carboni ardenti. E più si andava avanti, più sembrava che la buona sorte ci avesse mandato al diavolo.
L'ultima infiltrazione in territorio ostile si era conclusa con un disastro: uno degli elicotteri era precipitato prima di arrivare a destinazione, si presume per un’avaria a uno dei due rotori. Come se non bastasse, dalla multinazionale che ci teneva a libro paga, era giunto un secco no a rinviare l’operazione e tornarcene alla base, quindi avevamo dovuto proseguire con ben dieci uomini in meno. Risultato: il nemico ci aveva intercettati e neutralizzati prima che riuscissimo solo ad avvicinarci all’obiettivo prefissato.
Avevamo eseguito appena in tempo l’upload delle menti prima che fosse troppo tardi, lasciando sul campo i nostri corpi, ridotti ormai a stracci di carne semisintetica e metallo.
Avevamo riaperto gli occhi nel punto di raccolta NH322, dentro corpi nuovi di zecca, assicurati ai lettini con cinghie in plastica d’acciaio: la fase finale della trasmigrazione provocava dei forti spasmi muscolari e, nei primi istanti che seguivano il risveglio, potevamo rovinare le confezioni, anche in modo irreparabile.
Dopo circa due minuti di agitazione, grazie al neuro-software di adattamento veloce, la situazione tornava alla normalità ed eravamo in grado di percepire il nuovo corpo esattamente come il precedente.
In quel periodo sembrava più facile cambiare corpo che cambiare umore: eravamo tutti ancora incazzati come dei varani presi per la coda per come eravamo stati costretti a portare avanti l’operazione. Purtroppo, non era la prima volta che gli azionisti di maggioranza di una multinazionale dell’alimentazione, si sentivano in diritto di interferire nel nostro lavoro.
A poche ore dalla trasmigrazione, ci eravamo trovati di nuovo in una nave da trasporto, diretta su Umbanda21, satellite artificiale sotto il controllo di una superpotenza economica africana. Da quelle parti, la Coalizione delle multinazionali terrestri stava subendo una pesante offensiva da parte di forze extrasistemiche, penetrate nella capitale satellitare: ci aspettava un duro scontro in mezzo a una fitta rete di edifici e arterie stradali, disposte su decine di livelli.
Il compito dell’Unità d’Intervento Critico, di cui la mia squadra faceva parte, era quello di affiancare un reparto del genio militare in procinto di gettare due ponti di circa cento metri, sopra una voragine provocata dall’emersione di macchine minatrici nemiche. I raid dal sottosuolo mi davano sui nervi più che avere sulla testa una squadriglia di navicelle caccia pronte a scendere in picchiata. Per fermare quelle dannate talpe meccaniche, l’esercito della Coalizione doveva portare i propri supporti pesanti oltre la spaccatura, nei quartieri ovest, e posizionarli all’imbocco delle principali arterie stradali, così da creare una ragnatela di fuoco su più livelli.
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