Sta per uscire il suo nuovo romanzo, Chronic City. E, a detta sua, è una storia “lunga e piuttosto strana”. Non si sa per ora molto di più, ma una cosa è certa: anche nella nuova fatica l'autore newyorchese Jonatham Lethem rinnova l'omaggio al maestro Philip K. Dick. Nulla di nuovo da questo punto di vista, perché fin dai suoi primi romanzi il debito, se così si può chiamare, è stato dichiarato esplicitamente: sia Concerto per archi e canguro (Tropea, 2002, anche se il romanzo è uscito in realtà nel 1994) sia Amnesia Moon (Tropea, 2003, l'originale nel 1995) pescano a piene mani dall'immaginario psichedelico e relativistico di Dick. Poi Lethem ha preso la sua strada con romanzi anche fuori dal genere, come l'ambiziosa epopea americana La fortezza della solitudine e anche il precedente Oggetto amoroso non identificato.

Ma il primo amore è rimasto. Ed è riemerso ora. Forse per celebrare questo sentimento “folle” in occasione dell'uscita del nuovo romanzo, che segna anche il ritorno di Lethem al genere fantascientifico (questo almeno si sa), l'autore ha pubblicato sul suo sito un essay (o breve saggio) intitolato Crazy Friend (il link è nelle risorse di rete).

Il testo è un po' tortuoso (chi volesse andare dritto al punto, può saltare le prime pagine), ma molto sentito: è una vera e propria confessione di come l'autore sia stato letteralmente “accompagnato” fuori dall'infanzia dai testi di Dick. “Il padre del mio migliore amico Jake – spiega Lethem – vedendo la nostra passione per i fumetti, ha iniziato a passarci romanzi di fantascienza in edizione economica, ma non erano quella roba un po' vintage anni '40, tipo Ray Bradbury o Isac Asimov che ho trovato nelle librerie di casa mia. No, erano nuovi autori di moda, fortemente psichedelici, come Roger Zelazny, Harlan Ellison e, forse un segno del fato per me, Philip K. Dick. Il primo romanzo che lessi fu Un oscuro scrutare.”

Da quel momento, Lethem sviluppa una piccola ossessione, come emerge dallo stesso racconto. È l'inizio di un rapporto in cui Lethem si lancia nel tentativo di elaborare criticamente il materiale dickiano. Un cammino che parte da uno dei suo primissimi testi su Dick, ovvero Two Dickian Novels (1990), dove si vanno a scovare le radici dell'autore nei suoi precedecessori, come Frederik Pohl e Cyril Kornbluth (“da cui ha preso una visione satirica, distopica di un futuro vicino”), A.E. Van Vogt (“la predilezione per le disgiunzioni della realtà”), Robert Heinlein (“un certo qual senso di solipsismo e paranoia”), ma anche Lewis Carroll (“a entrambi si applicano aggettivi come onirico, surreale, minaccioso”), e che termina vent'anni dopo, quando Jonathan Lethem viene scelto per preparare da un punto di vista editoriale l'ingresso di Philip K. Dick nella Library of America.

In mezzo, una miniera di aneddoti in cui si raccontano i mille modi in cui si è manifestata la “pazza amicizia” fra Lethem e Dick. Un'influenza esercitata fino nei più brevi racconti, due dei quali sono riportati nel saggio (leggete almeno Walking the Moons a pagina 12) e, insieme, un filo diretto che si manifesta talora con tratti vagamente ossessivi: “Ho avuto un sacco di opportunità di parlare a Philip senza che lui mai mi rispondesse, il tempo funziona così”. E ancora: “Un giorno mi sono recato in un studio di tatuaggi e mi sono fatto disegnare il logo della bombola a spray della prima edizione americana di Ubik sul braccio destro. È stato un gesto così, fatto d'impulso […]. Nel giro di due decadi, ho osservato il disegno gonfiarsi, sgonfiarsi, infiacchirsi, sopravvivere ai morsi delle zanzare. I colori più semplici non sono poi tanto sbiaditi, ma il contorno blu, quello sì, è caduto vittima dell'entropia che lo spray Ubik avrebbe dovuto combattere. Così, mentre Dick ha fatto sì che Ubik divenisse immortale, io ne ho garantito la mortalità.”

Per tutti coloro che amano Dick o Lethem, è una lettura vivamente consigliata.