Una sorta di dejà-vu attraversa lo spettatore che abbia già visto Virtuality.
Defying Gravity a prima vista infatti sembra ricalcare una trama già vista nel recente pilot del creatore di Battlestar Galactica, Ronald D. Moore.
Questo telefilm ci racconta le avventure spaziali di un gruppo di otto astronauti, quattro uomini e quattro donne di cinque nazioni diverse che, a seguito di una lunga e scrupolosa selezione, intraprendono una missione di ricognizione del Sistema Solare sulla navicella Antares, ma ben presto scopriranno che la missione che stanno svolgendo non è di pura e semplice esplorazione.
L’equipaggio e la missione si trovano sotto costante monitoraggio da parte della base terrestre, con veri e propri “confessionali” come in un reality, e a parte un certo elemento chiave che non si può dire dato che si tratta di uno spoiler degli episodi seguenti, le similitudini con il pilot di Moore finiscono qui. L’enfasi infatti sull’aspetto “reality-show” non è invadente come nella prima parte di Virtuality.
In questo pilot i caratteri e la psicologia degli otto personaggi non sono particolarmente approfonditi, la storia e la sceneggiatura sono concentrate prevalentemente sul protagonista principale della serie, Maddux Donner, al quale gli autori hanno voluto dare un carattere impulsivo, istintivo, decisionista e poco propenso alla disciplina gerarchica, tutti tratti che rimandano direttamente al buon vecchio Capitano Kirk. Purtroppo però il buon Ron Livingston, interprete di Maddux, non possiede neanche lontanamente il carisma e lo charme del vecchio Kirk, e questo mette un po’ i bastoni tra le ruote per quella che poteva essere una buona intuizione in termini di vitalità per il telefilm.
Nel cast troviamo anche una vecchia conoscenza per gli amanti delle serie fantastiche, tale Christina Cox, la Vicky Nelson del serial Blood Ties, che nel ruolo di Jan Crane fornisce quantomeno autorevolezza e professionalità ad un cast oggettivamente in pieno deficit qualitativo. Ci sono infatti tutta una serie di ruoli interpretati in maniera alquanto imbarazzante, a partire dall’indiano psicolabile aspirante suicida Ajay, passando per la tedeschina disinibita Nadia, e concludendo con l’ottuso capo-missione Mike Goss, che fornisce il meglio di sé quando cade riverso a terra dopo aver incassato un gancio da un proprio subordinato.
La costruzione della serie è svolta quindi in maniera molto meno sofisticata e intrigante rispetto a Virtuality, ha però come pregio essenziale quello di non cadere in errori macroscopici come è accaduto nello sfortunato progetto di Moore. La serie infatti si svolge su canoni e schemi molto tipici del serial americano: passati tormentati, il ciccione nerd pseudo-intelligente, belle ragazze, triangoli amorosi a go-go, gravidanze e malattie misteriose.
Non per niente era stata presentata dal network come una sorta di “Grey’s Anatomy” dello spazio (ma questo non dovrebbe sorprenderci dal momento che chi guida l’intero progetto è James D. Parriott, produttore di, appunto, Grey’s Anatomy).
Defying Gravity ha comunque il pregio di sviluppare un efficace mistero a lungo termine, una qualità non da poco di questi tempi.
Guardabile.
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