L’obiettivo degli spettacoli era divulgativo (cioè far conoscere le opere proposte a un pubblico più vasto di quello degli appassionati) oppure quel che vi interessava era soprattutto rileggere e re-interpretare, proponendo i testi in una nuova veste?
Direi entrambi. E credo che una cosa non dovrebbe essere possibile senza l’altra: si è davvero divulgativi se si opera una scelta, se si rende viva una materia e si fa venire voglia a chi è nel pubblico di andare a ritrovare o a scoprire l’originale.
Cosa vuol dire adattare al teatro un racconto? E perchè può essere necessario un adattamento teatrale per un buon testo letterario, già apprezzabile ed efficace nella lettura “privata”?
Domanda complessa assai!Innanzi tutto perchè la lettura, ovviamente, permette un movimento “oscillatorio” (ad esempio tornare più volte su qualche passaggio, o leggere col proprio “tempo emotivo”) che il teatro non concede né conosce. Poi perchè a teatro la parola, quand’anche solo musicale, è un corpo, sonoro vivissimo tattile, e deve rispettare le immagini e i pensieri attuali, nati là per là, sul palco, nella messa in scena, e che vanno articolati secondo una drammaturgia che crei uno spazio e un tempo, un’epoca.
In generale, quale tipo di testo risulta più adatto per una “teatralizzazione”? Monologhi, dialoghi, testi con molte descrizioni o più scarni…
Direi che dipende dal gioco giocato.Faccio un esempio: il racconto di Herbert che abbiamo scelto. Una scorta di semi ha moltissime immagini e descrizioni, di quello si nutre, con quello racconta la mutazione degli uomini su un nuovo pianeta.Ora, in questo caso bisogna “asciugare”, perchè il tempo dell’ascolto ha meno resistenza, ma allo stesso tempo proteggere quel modo di scrivere, difendendo appunto l’immaginario, addirittura chiarendolo, anche attraverso un attore molto concreto, capace di “vedere” le cose.
Alla fin fine, non c’è un tipo di racconto più adatto di un altro, c’è solo buona letteratura, letteratura che stimola più di altra, che meglio di altre sa - ad esempio - dare un’ambientazione “fisica” al racconto (Henry James in questo è maestro) o avere un “odore” peculiare, che la scena riesca a conservare.
Rispetto al discorso (generale) sull’adattamento teatrale, i racconti di fantascienza presentano delle specificità?
Credo abbiano soprattutto un “linguaggio-mondo” da rendere immediatamente “credibile” al pubblico. Per farlo bisogna intendere l’operazione compiuta dallo scrittore.Ad esempio: in Aka è Sutty, la protagonista, lo sguardo portante. Quindi sarà lei a raccontare, e sono quel mondo in cui lei arriva e le sue storie a portare il “senso” del testo. Questo mondo va immediatamente fatto vivere e vedere al pubblico, come una terra sconosciuta in cui si sbarca, differente quel tanto da ciò che conosciamo da spostarci gradualmente verso un margine sempre più alieno, e senza che quasi questo sia percettibile.D’altronde la fantascienza fa ormai parte di un immaginario condiviso, e quindi bisogna far attenzione a non “normalizzare” troppo la lingua e la storia, lasciando sempre quel “perturbante”, quella “inversione dello sguardo” che la caratterizza e la rende feconda.
Fra i testi proposti nella rassegna figurano anche opere di Leopardi, Calvino, e altri classici. In che misura è diverso il lavoro di un attore e di un regista su tali testi rispetto a quelli più moderni?
Senza inoltrarci in questioni di lingua e drammaturgia, direi, in generale e istintivamente: nessuna. Nessuna nella misura in cui ogni singolo autore, antico o moderno che sia, mette in campo un linguaggio specifico, quindi da affrontare sempre come se non avessimo altra bussola che l’aderenza alla sua lingua. O anche nessuna perchè le parole e i sensi bisogna “masticarli” tutti uno ad uno, nella maniera più fluida possibile, andando al di là degli schemi: trattare Shakespeare come lingua antica e “alta” e invece Dick come lingua contemporanea e colloquiale, ad esempio, quando magari è proprio l’opposto quel che bisogna fare, a seconda della lettura che si e' scelta.
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