La maggior parte dei lettori associa il nome di Valerio Evangelisti alle fanta-
vicende di Nicholas Eymerich e alla trilogia del "Magus". Quanto il Nostro fosse anche abile saggista, risultava peraltro già evidente negli anni Ottanta dai suoi scritti di storia moderna, o dagli interventi critici sulla rivista Progetto Memoria. Recentemente Evangelisti ha raccolto ventuno articoli, saggi, prefazioni - apparsi su varie pubblicazioni nella seconda metà dei Novanta - nel volume Alla periferia di Alphaville. Interventi sulla paraletteratura.
Il sottotitolo è esplicativo: in questo libro si parla essenzialmente delle cosiddette "letterature di serie B", dalla fantascienza all'horror, al noir, al giallo. Ma, come è d'uso per l'Autore, le sue analisi di vicende immaginarie tendono, più che a concentrarsi su considerazioni d'ordine estetico (che certo non mancano), a estendersi alla sfera del reale, in una catena di anelli che coinvolgono aspetti del mondo attuale. Insomma, più che mai, per Evangelisti la letteratura ha senso in quanto specchio del reale, e anzi la narrativa di genere - segnatamente la fantascienza - appare oggi, in tempi di narrativa "alta" ripetitiva e paradossalmente sganciata da un contesto globale in sconvolgimento, l'unica in grado di interpretare o evidenziare i "temi forti" del terzo Millennio.
Ma perché Alphaville? Nella Premessa, l'Autore richiama l'indimenticato film Agente Lemmy Caution: missione Alphaville (1959), in cui il regista Jean-Luc Godard si serviva di moduli fantascientifici e di un celebre personaggio del 'giallo' per presentarci una Parigi futura, e una società, schiacciate dal "pensiero unico" di un cervellone elettronico soppressore dell'immaginazione, della cultura, della poesia, in una parola: della libertà. "Uno dei film" scrive Evangelisti "che meglio hanno saputo prevedere, con oltre un trentennio d'anticipo, le insidie che attendevano al varco la nostra società (...) Ideandolo, Godard aveva avuto in mente il contesto sociale che gli era contemporaneo". Non solo: quel regista si era reso conto che lo strumento ideale per il suo discorso era proprio il cinema di genere, così incisivo e talora un po' rozzo: e anzi - sia pure da par suo - aveva mescolato ("contaminato", diremmo oggi) giallo e fantascienza.
Per brevità non richiamo le opinioni espresse dall'Autore sulla fantascienza in generale, per le quali preferisco rimandare il lettore alla recensione della rivista Carmilla nello scorso numero di Delos. Desidero invece soffermarmi su alcuni argomenti particolari, trattati fra molti altri nel volume. Essi riguardano rispettivamente: H.P. Lovecraft, la psicologia del serial killer, Sigmund Freud, la fantascienza italiana.
Quanto a Lovecraft: su questo autore si è scritto moltissimo, anche in Italia, e pareva che si fosse già detto tutto o quasi tutto. Evangelisti ne rivisita le tematiche e la biografia giungendo a nuove e talora opposte deduzioni. "Nessuno come Lovecraft - leggiamo - appare integralmente e coscientemente immerso nel contesto della scienza del suo tempo. Nessuno come lui riesce a cogliere la sconvolgente portata di nuove scoperte, destinate a diffondere ombre dove si supponeva essere chiarezza, e gelo dove si cercava calore." E pertanto: "Non è la morte che i personaggi di Lovecraft paventano più d'ogni cosa. E' piuttosto l'estraniamento definitivo, la calata in un mondo alieno (...), l'ingresso in una dimensione nebbiosa per gelo totale. In questo senso, i suoi incubi sono di una modernità affascinante. Il concetto di alienazione trova in lui una rappresentazione condotta agli estremi limiti, in forma di angosciosa metafora". Metafora che allude a "un mondo senza calore e senza significato, come certamente è la società nell'era (ai tempi di Lovecraft incombente) della reificazione totale ." Evangelisti sottolinea inoltre come il noto conservatorismo lovecraftiano non rifiutasse idee "socialiste, antiborghesi e perfino dichiaratamente marxiste". Ciò "grazie forse anche al rapporto con amici di sinistra come Robert E. Howard o lo scrittore comunista Frank Belknap Long." Su questo inedito tema, parla direttamente l'epistolario di HPL nell'ultimo periodo della sua vita (in parte edito in Italia), da cui traspare anche una lettura del Manifesto del partito comunista. Lovecraft ne scriveva (1936): "La grande intelligenza di Marx ed Engels, e la loro capacità di guardare al futuro sono fuori discussione, come pure l'importanza basilare dei principi economici da essi scoperti e formulati." Tutto questo non per accampare impossibili assimilazioni, ma per dimostrare fuori luogo altri accostamenti dominanti: "Il tuttologo Lacassin cercherà nei suoi [di Lovecraft] racconti allusioni a percorsi iniziatici (riuscendovi, è ovvio: se ne trovano persino nei manuali di cucina). Lo stesso faranno i suoi primi esegeti italiani, tra un Campo Hobbit e l'altro. Sedicenti filosofi occulti si rifaranno al pantheon immaginario dei suoi racconti infiorando di citazioni abusive i suoi grimoires. Verrà scomodata persino la massoneria di rito egizio, pur di accostare Lovecraft a ciò che lui più detestava." In chiusura, Evangelisti evidenzia la grande perizia narrativa di HPL analizzando il lungo racconto La maschera di Innsmouth.
Dalla fantascienza orrorifica di Lovecraft a La fantascienza italiana: uno specchio in frantumi. In questo articolo, viene tracciata una storia della "nostra" science fiction, degli ostacoli che si sono frapposti nei decenni alla sua affermazione. Vengono citati autori e pubblicazioni, richiamate iniziative. In verità siamo - credo - all'unico saggio del volume in cui, fra opinioni che condivido pienamente, ne incontro una che non mi trova in risonanza. "Nel passaggio dagli anni Sessanta agli anni Settanta" scrive Evangelisti, "la sf italiana ritenuta più matura finì con l'assumere una precisa fisionomia negativa. Storie in cui il contenuto tecnologico-scientifico (...) era volutamente messo ai margini, azione ridotta al minimo, soppressione totale del mistero e della suspence, svolgimento minimalista ad oltranza, spesso affidato al flusso di pensieri (...), ambientazione provinciale o addirittura rurale. Agli autori italiani riuscì un'impresa che altrove mai nessuno si era sognato di tentare: quella di dar vita a una fantascienza noiosa. La risposta del pubblico fu prevedibile: la già radicata diffidenza verso gli autori nazionali si convertì in esplicita avversione. Nacque invece la comoda favoletta del complotto degli editori, troppo incolti e troppo commerciali (e cosa mai avrebbero dovuto essere?) per aiutare la sf italiana a raggiungere edicole e librerie."
Orbene, è tristemente vero che molti nostri autori avevano la tendenza a parlarsi addosso, o a tentare sperimentalismi talora maldestri, o scimmiottamenti di una vagheggiata letteratura "colta". Tuttavia, che io ricordi, lavori del tipo non videro mai la luce presso collane specializzate a larga diffusione (Mondadori, Nord, Fanucci); alcuni volumi "insoliti" furono pubblicati dalla Tribuna (gestione Curtoni-Montanari) fra altri di scrittori italiani, ma a quanto io ne sappia le vendite degli italiani restavano praticamente identiche a quelle degli americani, con un calo intorno alle 500 copie. La massima parte di quella produzione confluiva quindi, per quanto mi consta, in una cerchia di iniziative editoriali davvero circoscritte, se non del tutto amatoriali, l'eco di molte delle quali forse neanche raggiungeva, immagino, il grosso dei lettori di fantascienza. Questa, ripeto, era la mia impressione. Per il resto, penso non si possa non concordare con la rimozione - negli anni Ottanta - di "ogni forma di cultura anche vagamente critica", con il ritorno a un conformismo di massa, e conseguente scomparsa di molte iniziative feconde. Il vuoto che si creò in ambito fantascientifico non fu che l'esito di un riflusso generalizzato, una falla oscura che sarebbe durata un decennio; fino agli anni '90, con le antologie cyber curate da Brolli, e la nuova sf italiana.
Il serial killer (siamo in altro argomento) è personaggio ricorrente, anzi ormai pullulante, in romanzi e film. Una certa diffusa concezione vorrebbe la sua patologia sorta praticamente dal nulla, o forse da una mutazione del Dna; una mostruosità incomprensibile "da schiacciare come uno scarafaggio". Ma in un lungo e documentato excursus - a mezzo tra saggio e narrativa - incentrato sulla figura del famigerato Zodiac, che colpì le sue vittime negli Usa durante gli anni Settanta, Evangelisti giunge a evidenziare alcune caratteristiche psicologiche comuni in questo genere di pluriomicidi, e a suggerirne le origini. Origini da ricercarsi anzitutto - nei primi anni di vita del soggetto - in un ben individuato tipo di rapporti con i membri della famiglia, in particolare con la figura materna; famiglia a sua volta inserita in un preciso contesto di valori sociali, di lavoro, economici. "Centinaia di serial killer altrettanto pericolosi sono nel frattempo apparsi negli Stati Uniti, ma anche in paesi che ne avevano avuto esperienza scarsa e sporadica, tra cui l'Italia. Non a caso: l'etica protestante è stata imposta dovunque nelle forme della pensée unique, l'ipercompetitività è divenuta più dogma che regola, la funzione materna è insidiata dovunque, il disprezzo per il perdente e il diritto del cacciatore sono ormai condivisi sotto ogni latitudine."
Collegato a questo argomento (anche se non c'è un rapporto diretto con la narrativa di genere) è il breve saggio concernente Freud: l'estensore vuole riportare una base di razionalità in una campagna disfattista e revisionista ormai martellante al grido che suona come una campana a morto: Freud non è scientifico; quindi è da gettare a mare - come suol dirsi - con tutti i panni (personalmente, ricordo un forum su un fascicolo di Le Scienze, marzo 2000, in cui si fronteggiavano due opinioni: da un lato Freud pensatore ma non scienziato, dall'altro un articolo di Giovanni Jervis che, come difensore dello psicanalista, non riusciva a cancellare nel lettore l'impressione di una resa, specie citando la "nuova psicologia scientifica che, come sappiamo, ha compiuto passi da gigante").
Certamente parte del pensiero freudiano oggi appare superato. Ma, scrive Evangelisti, "sta di fatto che anche chi ha rotto più bruscamente col pensiero freudiano non ha mai cercato di negarne i capisaldi: dalla funzione rivelatrice del sogno, all'esistenza della sfera inconscia, al significato dell'isteria, alla apparentemente banale nomenclatura delle patologie. Nevrosi e psicosi sono state individuate da Freud con una chiarezza che ben pochi potrebbero negare sfiorando l'impudenza." Ma allora, come e perché disfarsi di un simile personaggio? Semplice: basta sostenere che "l'uomo è una macchina, e il cervello umano una macchina particolarmente complicata", benché finora non si sia riusciti a "elaborare proposte credibili, e finendo con l'ammettere di tanto in tanto la propria impotenza. La miseria della moderna psichiatria si adatta molto meglio della complessità freudiana al nuovo materialismo. Un materalismo spietato che nega l'individuo non in nome della dimensione sociale o di quella universale, ma in nome di istinti eretti a valori. E che non può riconoscere la matrice inconscia delle pulsioni, salvo ammettere la radice aggressiva, e cioè animalesca, della propria concezione del mondo." Come si vede, parole di fuoco ma basate su elementi e su una logica difficilmente contestabili, di fronte ai vari elettroshock tornati in auge, e alle tonnellate di chimica e farmaceutica dilaganti.
Purtroppo non mi è possibile qui scrivere di tutti gli altri interventi che compongono il volume. Mi limito pertanto a segnalare un approfondito saggio sulla Inquisizione (I volenterosi carnefici del Papa), scritto in polemica con un nuovo fenomeno: quello per cui oggi si cerca da più parti di riabilitare, se non tessere l'apologia, del Santo Uffizio; laddove esistono prove e numeri di torture e vittime. Evangelisti scrive anche di Nero Wolfe e della società riflessa nei suoi "gialli"; della fantascienza francese, oggi molto vitale e con punte di notevole originalità; della composita e per certi aspetti profetica fanta-narrativa di Vittorio Curtoni (è riportata la prefazione alla sua antologia Retrofuturo); del noir di Jean-Patrick Manchette. Troviamo acute osservazioni su Dick, su Harlan Ellison, e la fascinosa introduzione al romanzo L'ultimo sparo di Cesare Battisti. Infine, le esilaranti pagine sulle opere di alcuni "maestri" del... cinema sgangherato (Ed Wood, Ted Mikels...), rievocate con occhio critico ma "affettuoso".
In definitiva una densa raccolta nella quale non vengono mai meno forza argomentativa ed espressiva (l'autore è capace di creare una tensione "narrativa" anche quando fa critica, o si inoltra in argomenti specialistici), chiarezza, consapevolezza di andare controcorrente, e anche - come qualcuno ha notato - capacità di indignarsi. Tutte qualità che sono ormai merce rara.
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