Faith corre. Tutti i personaggi dei videogiochi, in linea di massima, lo fanno. Una volta bisognava schiacciare shift. Ormai corrono di default. Ma non così bene come Faith. A suo modo, Faith corre come Super Mario, re dei platform. Meglio di Super Mario. L’idraulico panciuto è appunto uno di quei personaggi che corrono sempre. Con i salti e la ricerca di assoluta fluidità di movimento, Mirror’s Edge rappresenta per certi versi l’evoluzione adulta del genere platform. Treddì e inquadrato in soggettiva.
Jumping Flash? Diversa l’epoca, diverso il solco. L’avventura di Faith splende nel segno del più vivace realismo cinematografico. Quello che non si ferma a ricalcare la realtà che vediamo, ma la trasfigura, la idealizza secondo una lettura personale, nel caso di Mirror’s Edge forte e riconoscibile, giocata su spigoli vivi e colori saturi. Ogni capitolo del racconto, introdotto da una sequenza a cartoni animati sull’esempio delle intrusioni linguistiche di Kill Bill e Lola Corre, riflette una tonalità. La storia si apre con il bianco e l’azzurro, poi la fotografia vira al viola, il verde, il giallo, l'arancione, il blu. Gli stessi scorci metropolitani vengono osservati sotto luci differenti, nel corso di una giornata frenetica che stringe la propria morsa sulla protagonista, costretta a misurarsi con le ambiguità della società dalla quale si è volutamente spinta ai margini.
Un cadavere eccellente, la sorella poliziotta che sembra perfetto capro espiatorio, cospirazioni, tradimenti, fantasmi del passato che tornano improvvisamente a farsi vivi, mentre si definiscono le ultime mosse per le elezioni del potente sindaco di una città dalla facciata tanto linda e pulita, quanto dispotica e opprimente. La protagonista appartiene a uno dei pochi gruppi che non si sono conformati alle rigide regole che la stragrande maggioranza dei cittadini ha invece accettato di buon grado, in cambio della promessa di sicurezza. Qualsiasi tipo di comunicazione viene monitorato e gli unici a sfuggire alle maglie del controllo sono i runner come Faith, che trasportano informazioni nelle loro borse, correndo sui tetti alla maniera di agili staffette.
Ma più che sull’esistenza del runner, il primo capitolo di Mirror’s Edge si concentra sulla giostra di emozioni attorno all’eroina, sballottata in un crescendo ad alta tensione. Un videogame diretto, compatto e risoluto, di poche parole, ma ludicamente generoso, che non si concede lunghi preamboli, né ama le digressioni o divagare, procedendo implacabile dai titoli di testa, disegnati sui grattacieli della stessa città, a quelli di coda. Alla fine, quando il thriller si completa, anche dettagli che sembravano irrilevanti acquistano un preciso valore.
Sebbene in apparenza minimalista, Mirror’s Edge è un congegno raffinato che unisce estetica d’avanguardia al pragmatismo dei classici. Tutto è in funzione del gioco, dalle forme ai colori, ma anche l’occhio viene catturato continuamente nel vortice di questa girandola caleidoscopica e si perde nello skyline di una metropoli futuristica che, nella finzione, riesce a esistere per davvero. Il palazzo che si ammira all’orizzonte in una missione potrebbe essere quello in cui ci si infiltra nella successiva, perché no, senza sparare un colpo. Nonostante la visuale in prima persona e il ritmo concitato, le armi sono un optional lasciato alla scelta del giocatore, profondo interprete di un nuovo paradigma d'azione estremamente dinamico, dalla direzione formidabile e la produzione innovativa. C’è sempre almeno un'alternativa e anche negli istanti più turbolenti, quelli che corrono il rischio di scivolare nell'interattività repressa del laser game, il level design è lì per essere esplorato, a caccia di altre strade, più efficaci, meno scontate o semplicemente diverse. Un inno alla libertà.
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