Quello che il film evidentemente sbaglia è nel voler trasporre fedelmente un umorismo che si presta male alla sua versione sul grande schermo, proprio mentre invece risultava tanto efficace nella forma scritta. Si pensi alle tante frasi un po’ non-sense che la voce fuori campo nel film riprende quasi pari pari dalle originali del libro: sono frasi in cui la complessità sintattica fa da contrappunto all’assenza di una vera e propria logica semantica, con il risultato che a volte è necessario rileggere la frase per coglierne appieno la potente ironia che veicola. In un film, ma soprattutto in un film che esce in un periodo in cui il cinema è accelerato schizofrenicamente per adeguarsi ai gusti superficiali dello spettatore medio, l’umorismo di Adams non può essere trasposto in misura fedele senza cercare nuove soluzioni. Quelle nuove soluzioni che potevano fare della Guida galattica di Jennings un nuovo, riuscitissimo capitolo della storia della “Guida galattica” di Adams e che invece si è rinunciato a cercare, dopo la morte dell’autore che aveva curato a lungo e in maniera certosina la sceneggiatura di quell’ultima, difficile sfida. Molte le idee originali che sono state inserite nel film ed erano assenti nel romanzo. Innanzitutto un più ampio ruolo dei Vogon, gli spiacevoli alieni che all’inizio della storia distruggono la Terra per fare spazio alla nuova autostrada interstellare: la loro indole burocratica e inefficiente viene approfondita per creare un’altra divertente sotto-storia delle mille che compongo la Guida. Un’ampia scena del film è proprio situata su Vogsfera, il pianeta centrale dei Vogon, dopo i protagonisti si ritrovano a dover superare lunghe file a uno sportello e compilare enormi moduli per liberare Trillian dalla brutale fine che l’attende. Non mancano trovate spassose: l’intera superficie non edificata di Vogsfera è costellata di piccole trappole pronte a colpire il primo essere che sviluppa un seppur minimo barlume di idea o pensiero, a sottolineare l’ottusità Vogon; gli stessi soldati Vogon si rivelano i peggiori tiratori della galassia, così che mentre cercano di colpire Zaphod con migliaia di fulminatori questi può ballare alla luce dei laser come fosse in discoteca (evidente il verso agli stormtroopers di Guerre stellari, che nel classico film si rivelavano pur a dozzine incapaci di scalfire minimamente gli eroi disarmati). Riuscitissima e in perfetto stile “adamsiano” (in quanto del resto da lui scritta) è la parte su Viltvodle IV, dove i protagonisti affrontano l’inquietante prelato Humma Kavula, impersonato dal sempre ottimo John Malkovic, a capo di una religione il cui credo cosmogonico ritiene che l’universo sia nato da uno starnuto. A parte queste radicali e ben riuscite aggiunte alla storia originale, il film rende molto soprattutto in due punti: nel tratteggiare l’angosciante androide Marvin, robot dal cervello smisurato che gli provoca un’infinita depressione, e che è un po’ l’icona del film sia per “personalità” che per l’originale estetica; e poi nel cercare di rendere un po’ più lineare la vicenda, mantenendo come prioritario l’obiettivo finale del viaggio di Zaphod, il pianeta Magrathea dove si cela il segreto della Domanda Fondamentale sulla Vita, l’Universo e Tutto Quanto la cui risposta è “42”.
A guastare quindi un’opera tutto sommato buona, ma non certo eccezionale, è soprattutto la storia posticcia che viene inserita nel film, sentimentale anche se sui generis, tra Arthur Dent e Trillian. Benché in molti punti anche qui si cerca di parodiare, facendo il verso a tante classiche scene dei film d’amore, la storia si rivela un po’ insulsa sia perché chiaramente stonata che per l’essere affidata a due personaggi di poco spessore. Martin Freeman, che interpreta Arthur, è un valido caratterista per i ruoli in cui è richiesto un certo umorismo “british”, ma proprio per questo è inadatto in situazioni diverse; Zooey Deschanel è fin troppo insipida per il ruolo di Trillian (oltre ad essere penosamente doppiata in italiano). Ma in generale il difetto di fondo va rintracciato nell’impossibilità di trasporre un’opera come la Guida sul grande schermo. Frammentata, discontinua, fatta di mille sotto-storie diverse a malapena tenute insieme da un labile filo conduttore, e forse per questo opera “postmoderna” per definizione, la Guida mal si presta a un tentativo di darle un senso di linearità e coerenza come quello di un film. Non a caso la sua formula migliore è quella episodica: il romanzo composto da paragrafi il più delle volte a se stanti, la serie di libri, le diverse puntate per radio e quelle per la televisione. Cercare di rinchiudere il portentoso bagaglio di idee, trovate e invenzioni di Douglas Adams all’intero di una pellicola di due ore si rivela impossibile e anche sbagliato perché comporta inevitabilmente la perdita dell’originalissima formula della Guida.
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