Per quanto riguarda, infine, le ragioni della presa che l’immaginario giapponese ha avuto sul pubblico italiano, occorre distinguere fra gli anime e i manga perché i motivi in comune esistono, ma ci sono differenze da tenere in considerazione.

Il celebre Grendizer (in Italia noto come Goldrake) in una posa epica.
Il celebre Grendizer (in Italia noto come Goldrake) in una posa epica.
L’immaginario giapponese presentato negli anime ha attecchito in Italia innanzitutto in base agli oggettivi motivi di grande innovatività estetica e contenutistica: quando mai si era visto, nel 1978, un ragazzo che si lancia dentro un portello a botola, atterra su una motocicletta a reazione che corre su un binario a cerniera che termina nel vuoto, fa una giravolta, i suoi vestiti si trasformano in un lampo caleidoscopico e infine ricade sulla poltrona della cabina di pilotaggio che si trova in cima a un’astronave a forma di disco volante, con la quale parte tirando una cloche e, dall’hangar in cui si trova, decolla uscendo da un portello posto all’interno di un’alta cascata immersa nella foresta? La risposta è: da nessuna parte! Le scene spettacolari che appena l’anno prima Guerre Stellari aveva presentate al pubblico di tutto il mondo appartenevano al mondo della cinematografia “dal vero”, non specificamente indirizzata ai bambini, ed erano comunque di provenienza americana, una tradizione produttiva e spettacolare assai nota agli italiani, diversamente da quella giapponese, della quale alcuni prodotti spettacolari erano solo sporadicamente giunti nel nostro Paese e, quando ciò era avvenuto, spesso in una veste americanizzata, come nel caso di Godzilla il re dei mostri (1957), versione ritoccata dagli statunitensi del film Gojira (1954) di Hinoshiro Honda. Inoltre, la quasi subitanea opposizione ideologica, pedagogicamente miope e culturalmente arretrata contro questi disegni animati da parte degli adulti di allora produsse, direi ovviamente, un ugualmente energico attaccamento emozionale agli anime da parte di moltissimi bambini e ragazzini, attaccamento che nel corso degli anni sarebbe divenuto il terreno fertile di un riconoscimento non solo generazionale, ma più in profondità identitario. E qui veniamo ai manga. La prima generazione di lettori di manga è stata costituita soprattutto, nei primi anni Novanta, da coloro che erano stati bambini negli anni Ottanta e si erano affezionati in profondità ai codici e ai temi degli anime televisivi. Negli anni seguenti a questa prima generazione se n’è aggiunta una seconda, formata da ragazzi più giovani che hanno spesso scoperto i manga indipendentemente o quasi rispetto agli anime. La prima generazione, nel corso degli anni ha poi approfondito le proprie conoscenze in tema gustando in modo più maturo i film di qualità di Hayao Miyazaki o Isao Takahata, e spesso ha esteso le conoscenze dal Giappone immaginato degli anime e dei manga a quello reale del turismo e dei libri di storia; la seconda generazione è ancora giovane e tutta presa dal grande fascino tematico dei manga, così vicini alle istanze giovanili rispetto alla più puerile o difficilmente fruibile produzione occidentale, e riconosce nella pratica di condivisione di questi fumetti – oggi considerati cool – un forte senso di distinzione, tra i principali elementi di definizione del proprio stile di vita e, in definitiva, della propria identità emotiva e culturale. 

Nel libro accenni anche alla creazione di un soft power giapponese. Ci puoi spiegare meglio?

Il concetto di soft power è stato introdotto dal politologo Joseph Nye alla fine degli anni Ottanta. Nye segnalava fra le righe, rivolgendosi al suo governo, che gli Stati Uniti, in un periodo di crisi economica negli anni Ottanta-Novanta, dopo avere usato nei decenni precedenti il suo hard power (militare) per diffondere la democrazia e il capitalismo, avrebbe dovuto usare un’altra arma potentissima, il suo soft power (culturale), per mantenere il proprio predominio economico e ideologico, visto che i soli mezzi dell’espansione industriale non erano più efficaci a tale scopo. Quindi gli obiettivi dell’hard e del soft power americani sono sempre stati chiari: diffusione di un certo tipo di organizzazione sociale e di un modello politico a salvaguardia di un determinato ordine sociale, militare, territoriale, ideologico.