Siamo di fronte a un’opera complessa, che sembra nascere proprio con il proposito di sintetizzare le istanze dei due manifesti del cyberpunk: il capostipite cinematografico rappresentato da Blade Runner e il capolavoro letterario di William Gibson, Neuromante. Il lavoro di Shirow completa questo ideale trittico andando a colmare quella lacuna che restava tra i due media e che è idealmente data dalla sovrapposizione del fumetto con l’animazione.Ci troviamo a NewPort City, una non meglio specificata megalopoli dell’Estremo Oriente, a cavallo tra i prossimi anni Venti e Trenta: la Rete Globale ha subito uno sviluppo vorticoso, arrivando a giocare un ruolo di primo piano nella vita delle persone.

In molti si dotano di innesti hardware per sfruttarne appieno le potenzialità connettendosi direttamente ad essa, ma così facendo finiscono per esporsi alle minacce di terroristi e cyber-criminali. Con questo vertiginoso progresso, si sono infatti moltiplicati anche i fenomeni delinquenziali legati alle ultime tecnologie. La Sezione 9 è il reparto speciale dei servizi di sicurezza istituita dal Governo per combattere la nuova frontiera del crimine. Di questa unità fanno parte il Maggiore Kusanagi e Batou, due cyborg la cui amicizia sembrerebbe prossima a sconfinare in un sentimento più profondo.

Kusanagi, che ha ormai raggiunto un livello di meccanizzazione tale che solo poche cellule del suo cervello originario restano a testimoniarne la natura organica, vive con profondo disagio la sua condizione sospesa tra passato e futuro: si interroga su una nuova definizione dell’umanità che possa contemplare la sua esistenza nell’ordine delle cose, ma allo stesso tempo aspira a un superamento dell’ultima barriera fisica che la tiene ancorata al mondo degli uomini. Il suo corpo, il suo guscio, il suo Shell.

Ghost in the Shell richiama nel titolo il lavoro Ghost in the Machine di Arthur Kostler, scrittore di origini ungheresi che nel suo saggio strutturalista aveva ripreso la vecchia scuola di pensiero avversa al Dualismo cartesiano, convinta sostenitrice della preminenza della condizione fisica del cervello come base nei fenomeni emergenti del pensiero e quindi della coscienza. Il Ghost (mente, intelletto, anima, essenza) sembrerebbe distinguere gli uomini dai robot, il cui istinto è inevitabilmente codificato in algoritmi e quindi mediato da calcoli. Ma tra i due estremi, un cyborg come il Maggiore dove si colloca?

È questo interrogativo a ossessionare Kusanagi fino al suo incontro con il Signore dei Pupazzi, un’entità capace di impossessarsi dei robot e di chiunque sia connesso alla Rete e di disporne a piacimento, come marionette, avvalendosene per commettere reati in modo da rendere pressoché impossibile risalire al mandante. Sebbene il ghost hacking rappresenti l’ultima frontiera dell’hackeraggio – irrompendo attraverso gli impianti neurali dei cyborg nel Ghost della vittima fino ad assumerne il pieno controllo – nel caso che si trovano ad affrontare Kusanagi e Batou sembra essere coinvolto qualcosa di più di un cyber-terrorista.

Se in fondo già in Neuromante avevamo Invernomuto, l’Intelligenza Artificiale che si prendeva gioco degli umani arrivando nell’epilogo a fondersi con la sua gemella eponima, qui sarà il Maggiore Kusanagi ad accettare un patto di mutua integrazione con il Puppet Master, risolvendo con il suo sacrificio l’equazione “anima = software” e spostando ancora più in là il confine tra umano e artificiale.

Ma tra cyborg, robot domestici, animoidi e ginoidi da compagnia, Ghost in the Shell diventa il fulcro di un discorso sintetico che racchiude un po’ tutta la storia della fantascienza del Novecento e la incastra alla perfezione con il pensiero dell’uomo, senza circoscriverlo all’epistemologia. Da Villiers de l’Isle-Adam (la sua Eve Future, 1886, viene richiamata nell’epigrafe di Ghost in the Shell: Innocence, “Se i nostri dei e le nostre speranze non sono altro che fenomeni scientifici, allora dovremmo ammettere che anche l’amore è scientifico”) a Gibson. Da Platone a Cartesio, fino a Richard Dawkins (“Quello che un individuo crea è un’espressione dell’individuo, proprio come un individuo è un’espressione dei propri geni”, Il gene egoista). Muovendosi all’interno di ben precise coordinate simboliche: le bambole (giocattoli, bambini, oggetti), l’informazione strutturata in eliche di luce che richiamano la conformazione del DNA, il reticolo stradale della città immersa nella notte.

Nel secondo capitolo cinematografico della serie, alle prese con delle replicanti-kamikaze, tocca proprio a Batou, rimasto “orfano” di Kusanagi, constatare la superiorità delle ginoidi rispetto agli umani: “la non onnisciente natura della percezione umana causa l’incompletezza della realtà”, sentenzia un testimone. E nel finale a Batou non resta che compiangere le macchine, frustrato dall’insensibilità dimostrata dagli uomini che, pur subendone la fascinazione, si ostinano a non vederne l’essenza e seguitano a trattarle come oggetti sacrificabili ai propri capricci.