Sulla scia metaforica delle manipolazioni del corpo e della mente, qui espletate attraverso il potere di penetrazione dell’immagine e la deriva memetica della violenza, si muove tutta l’opera della prima fase di uno dei registi contemporanei più visionari e controversi, di recente convertitosi alla disciplina formale del noir: David Cronenberg. Quando i suoi lavori si nutrivano prevalentemente di suggestioni horror e fantascientifiche, l’autore canadese riusciva a regalarci angoscianti escursioni negli inferi dei nostri tempi postmoderni. Videodrome risale al 1983 ed è un’opera meritatamente assurta al rango di piccolo cult, al pari di altre produzioni firmate dal maestro canadese. In questo suo ennesimo tour de force nei territori onirici della speculazione organica e metacinematografica, Cronenberg ci conduce nella proiezione delle più contorte tra le sue fantasie da incubo. A darsi battaglia sul campo dei mass media sono due ideologie contrapposte, facenti riferimento rispettivamente al modello Videodrome, filosofia della violenza estrema volta a penetrare le barriere psichiche dello spettatore fino al punto di condizionarne la sfera cosciente, e al fronte della Nuova Carne, che cerca di opporsi all’imminente ordine nuovo del rivale. James Woods interpreta un produttore di un network di secondo piano, scelto suo malgrado come pedina nello scontro tra i due sistemi: sperimenterà sulla sua stessa pelle le alterazioni percettive indotte dall’iperstimolazione visiva e si troverà infine a dover scegliere l’apocalisse migliore come esito evolutivo di una umanità irrimediabilmente involuta su se stessa.
Fortemente debitore verso le visioni allucinate di Cronenberg è il giapponese Shinya Tsukamoto, autore nel 1988 del violentissimo Tetsuo – The Iron Man. Film davvero unico nel suo genere, atipico per forma e struttura: la lunghezza scopertamente anti-commerciale, poco più di un'ora, lo colloca a metà strada tra un corto e un lungometraggio, la suggestiva fotografia in bianco e nero ne esalta la valenza inti-mistica, mentre l'assenza di una linearità narrativa lo avvicina a una dimensione psichedelica. La trama è quasi impossibile da districare: ciò che si può tentare è appena una estrapolazione di immagini e ossessioni. Un uomo pratica dolorosissimi e cruenti innesti di metallo sul proprio corpo, forse al fine di testarne le capacità di resistenza e adattabilità o forse semplicemente per accrescere le proprie potenzialità fisiche. Mentre scorazza a folle velocità lungo le strade periferiche della metropoli, un’auto con a bordo una coppia lo investe, causandone la morte. Eccitati dalla situazione, i due rinunciano a qualsiasi tentativo di soccorso e preferiscono consumare nell’amplesso – ballardianamente – la tensione accumulata nell’incidente. Per loro sarà l'inizio di un incubo spaventoso e terribile, che avrà il suo epilogo in una Apocalisse di Fuoco e Metallo.
Mentre vediamo il tecno-cancro risucchiare nella sua spirale di dolore e disperazione il protagonista, non possiamo non pensare ai temi nodali dell’analisi esistenziale contemporanea: la città immensa e spersonalizzata come nido di solitudini e omologazioni, l’incomunicabilità tra i sessi, il fascino perverso della violenza e della morte, la contaminazione graduale dell’organico e della mente da parte del sintetico. Ossessioni profondamente radicate nell’animo di uno dei più sensibili cineasti in azione nel panorama del Sol Levante, che per via di un fattore storico fortemente influente ancora oggi non può avere dimenticato l’orrore della maledizione nucleare. Lontano anni-luce dal cinema di impostazione occidentale, europea o americana che sia, Tetsuo è un film unico nel suo genere: crudo, spiazzante, ipnotico, evocativo. E contro ogni aspettativa, all'uscita ottenne un tale riscontro di critica e di pubblico, almeno nell’ambito della ristretta cerchia dei cultori, da indurre il suo autore a girarne nel 1992 un seguito che è quasi un remake: Tetsuo II – Body Hammer. Più che di un prosieguo, infatti, si tratta di una evoluzione delle tematiche del prototipo: facendo affidamento su una disponibilità di risorse visibilmente più ampia, Tsukamoto riesce a ricrearne l’atmosfera onirica da incubo e a ricontestualizzarne immagini e ossessioni. Un’opera forse ancora più incisiva, perché questa volta vengono svelati i misteriosi retroscena della metamorfosi cibernetica.
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