Ho incontrato questa persona una volta soltanto in una città estranea e lontanissima ma su qualche file, di nascosto, conservo un paio di foto. Gliele scattai col cellulare mentre le rivolgevo per la prima volta la parola e poi ci salutavamo, separandoci di nuovo, per sempre. Le nostre frasi erano state poche e brevi, nuvole al vento, ma intense. Non era bella Nazgul: bassina, rotondetta, scura, aveva però occhi profondi e dolcissimi; il viso era pieno di rughe. Quell’anno avevo quasi torturato mio padre: per il petrolio o il carbone doveva trascorrere un paio di mesi ad Astana, capitale del Kazakstan. Tanto supplicai che riuscii a farmi ospitare da lui nel suo provvisorio e scalcinato bivani per qualche giorno. Ad Astana lui era sempre fuori; io invece ero libero e presi a perlustrare come un pazzo l’intera città. Mi ero preventivamente fornito di alcuni dati, dopo aver corteggiato e pagato profumatamente un compagno di scuola la cui zia a suo tempo aveva lavorato in una clinica ostetrica barese. Tutto ciò accadde cinque anni orsono. Della capitale ricordo benissimo strade, vicoli, la torre Bayterek e soprattutto il molo sul fiume Ishim dove ci incontrammo, Nazgul Kuanysheva e io, in un pomeriggio dal cielo arroventato. Lei mi guardò a lungo con un sorriso sottile ma io sentii dentro qualcosa che si gonfiava e abbracciandola scoppiai a piangere. Mi disse che ormai mancava dall’Italia da un decennio e probabilmente non sarebbe tornata mai più; mi disse che si ricordava bene di me, del “suo” Ettore appena nato, e di avermi allattato per i primi cinque mesi. Del lungo periodo di gestazione seguente al reimpianto dell’embrione dopo l’aborto di mamma Ortensia, mamma Nazgul non volle dire niente. Né io chiesi. Non c’era bisogno. Parlavano il suo viso, la sua pelle, lo sguardo. Se la cavava ancora benino con l’italiano. Mi aggiunse che, dopo, non aveva più voluto affittare il suo utero; poi ebbe contorte parole di benedizione per me, concludendo che Yerlan, suo marito, la stava aspettando. Se ne andò per il lungofiume, zoppicando leggermente. 

Un’immagine che ho in mente fin da piccolo è un muro altissimo e freddo di marmo bianco con venature, tappezzato di piccole foto, fiori e lumini. Ogni tanto papà Antonio e mamma Erzsébet mi portavano dai nonni. Mamma Erzsébet mi sollevava in braccio e mi diceva qualcosa additando due immagini ovali in bianconero; questo qualcosa poi lo appresi: - Vedi, Ettore? Nonno Emilio, E-mi-lio... nonna Diana, Dia-na -. Col tempo familiarizzai con quei volti immobili e lontani, sbiaditi, ricordandone le fattezze. Di mamma Erzsébet rammento soprattutto i capelli color paglia, il suo naso assolutamente perfetto e uno strano ma piacevole profumo. Non posso dire di averne un ricordo cattivo, neanche particolarmente buono. In casa c’era mamma Erzsébet: e questo era tutto. Improvvisamente un giorno sparì, potevo avere quattro anni. Antonio mi raccontò che mamma Erzsébet era dovuta partire per il suo paese, l’Ungheria. Dopo, ricordo un intervallo molto lungo, come d’una vita. Successivamente seppi che Erzsebét non aveva acconsentito a rinnovare il matrimonio a tempo con Antonio, e che l’intervallo era durato solo sette mesi. Di colpo, mi appare poi mamma Ingrid.

L’anno scorso al compimento dei 16 anni usufruii della nuova legge: entrai nella maggiore età. E, quale battesimo della mia improvvisa maturità, seppi una cosa importante. Ricorderò per sempre il martedì mattina del mio sedicesimo compleanno.Eravamo a tavola per la colazione delle 7,30. L’ho detto, tutto sommato siamo una famiglia all’antica, noi.  Antonio disse: - Oggi i tuoi genitori devono dirti una cosa importante, che è bene giusto tu sappia. Ingrid aggiunse, gentile: - È la tua storia, Ettore. Ormai hai l’età per capire.

Capii tutto benissimo. In fondo, i “nonni” li conoscevo già come le mie tasche: si trattava ora, come disse Antonio (“papà”) di “assimilare un leggero spostamento di senso”. Semplicemente, Emilio Direnato e Diana Ciaccio non erano i miei nonni bensì babbo e mamma, quelli “veri”. Ma per modo di dire. Una coppia che desiderando fortemente un figlio si rivolse a una banca di embrio­ni. - Tua madre Diana - spiegò Antonio, - non poteva sopportare gravidanze… Poco male, si trovò un utero in affitto, la legge lo permetteva già -. Papà mi guardò con un sorriso che voleva essere rassicurante ma non nominò Ortensia né Nazgul, nomi e persone a me già ben noti. Io ascoltavo a occhi bassi. - Ma sono morti tutti e due! - dissi. - Perché?