Il Marconiano nuotava nella stessa direzione con rapide bracciate. Ad un tratto si immerse, scomparendo alla vista. Cesare sopraggiunse poco dopo, a sua volta si tuffò. Sotto era tutto un mulinare di vele attorcigliate, cavi, tronchi di legno agganciati a maniglioni metallici. Senza riflettere, si infilò in quell’ammasso rotante, finché, a fatica, scorse il ragazzino che stava lentamente sprofondando. Zack lo raggiunse per primo, lo afferrò passandogli un braccio attorno al petto e cominciò la risalita. Cesare arrivò accanto ai due. Li aiutò, sorreggendoli entrambi. All’improvviso, sentì una forte resistenza. Qualcosa li trascinava verso il fondo. Batté i piedi con forza, ma fu inutile. Si staccò un attimo e solo allora si rese conto di che cosa li stava trattenendo. Un gancio di ferro grosso quanto una mano, un uncino piantato nella gamba di Zack all’altezza dell’inguine. E più sotto, annodata al raffio, una robusta cima, tesa e dritta verso l’abisso, reggeva il terribile peso di un groviglio dei più disparati oggetti. La sofferenza del Marconiano doveva essere orribile. Eppure, non smetteva di agitarsi, di scalciare per portare in salvo il bambino. Il sangue usciva dalla ferita ad ogni movimento, allargandosi in una nuvola scura.

A Cesare occorsero alcuni secondi per tagliare la fune, poi furono liberi.

Durante l’interminabile tragitto verso la luce, i polmoni cominciarono a bruciargli. Ancòra un istante, si disse cercando di resistere alla tortura, un altro istante. Pregò di non avere sciupato attimi preziosi. Riemersero tutti e tre nello stesso momento, Zack e Cesare ingollando aria fresca voracemente, il ragazzo immobile con la testa ciondoloni. Mani forti li agguantarono e li trassero su una scialuppa. Lasco e la Scuttari, visibilmente scossi, si diedero sùbito da fare. Davide fu steso sui paglioli e il vecchio marinaio provvide alla respirazione bocca a bocca. La madre, intanto, gli massaggiava energicamente le gambe e le braccia. Dopo un minuto buono, Davide tossì, vomitò acqua, dischiuse gli occhi, tossì di nuovo e si mise a piangere.

Lasco lo palpeggiò dappertutto con dita esperte. – Niente di rotto – disse. – Ha preso solo una bella botta dietro la testa. Proprio qui, c’è un bozzo grosso come una prugna.

La Scuttari lo prese tra le braccia e lo cullò adagio, bisbigliandogli parole rassicuranti.

- Tra poco arriverà una lancia medica dalla Nave-Madre – disse.

L’allievo accomodò meglio Zack contro il bordo della scialuppa. La ferita aveva ripreso a rigurgitare, tanto che si era formata una vasta pozza appiccicosa ai sui piedi.

- Ha perduto molto sangue – commentò. – Se non fosse stato per lui…

- Piccolo boy? – domandò Zack con un filo di voce.

- Sta bene – rispose Cesare. Fissò il volto tormentato dell’uomo. Sin dal loro primo incontro era stato prevenuto nei sui confronti. Forse perché nel comportamento assomigliava tanto a suo padre, ma in quella situazione drammatica lesse nel suo sguardo smarrito solo solitudine e disperazione.

- Scusa… io… sbagliato… sbagliato – sussurrò Zack. La sua bocca si contrasse. Strinse le palpebre, poi le riaprì adagio. Allungò una mano a sfiorare quella di Cesare. – Volevo… go-away… altra vita… – Trasse un ultimo respiro tra i denti serrati, rovesciò gli occhi e rimase immobile. Cesare ammutolì. Pochi passi più in là, Lasco abbassò la testa.

- Quella manovra è stato un gesto di orgoglio – disse la Scuttari avvilita. – Un impulso dettato dall’ira. Non ho considerato l’incolumità dei miei uomini. Di mio figlio.

- Anch’io ho commesso delle mancanze – mormorò Cesare. – Mio padre mi ha lasciato una pericolosa eredità. Lui era per me lo specchio di tutti i Marconiani, scostanti, presuntuosi, gelidi nell’animo. Mi sbagliavo, specialmente su quest’ultimo punto.

- Cesare – lo chiamò a voce bassa Davide. La massa di capelli rossi e fradici gli ricadeva come un casco liscio sulla fronte. Distese una mano per toccarlo. – Tu sei mio amico, vero?

- Certo – rispose lui. – Ci saranno tante cose da fare e tu mi aiuterai.

La capitana sorrise. – Ora avrete bisogno di una famiglia – gli disse. – La nostra. Cesare Airoldi Scuttari. Credo sia un bel nome.