Nel rock, fra estremi fatti, da un lato, di fughe interplanetarie e trascendenze incorporee, e dall’altro, di distopie della meccanizzazione e della spersonalizzazione si muovono i Byrds, Frank Zappa, i Grateful Dead, Tim Buckley, The Steve Miller Band, i Jefferson Airplane / Jefferson Starship (i più fiduciosi nella capacità dei giovani di incarnare il futuro della nazione, e i più ingenui nel rappresentare questa America futura con le stesse parole d’ordine di quella passata). Allo stesso tempo, costante è la presenza dello spettro del dopobomba: da Bob Dylan (A Hard Rain’s Gonna Fall, Desolation Row, e tante altre canzoni) a Crosby, Stills & Nash e altri. Con Dylan, le più belle canzoni fantascientifiche sono di Jimi Hendrix. Bellissima perché aperta nel finale, 1983…A Merman I Should Turn To Be (1968)

Bob Dylan
Bob Dylan
racconta, mentre una guerra devasta il mondo, un’ultima notte d’amore prima di una trasformazione in esseri marini, che forse è l’incombere della morte. Più emblematica di tutte, Voodoo Chile (1968). Adesso, dice Hendrix, c’è la possibilità (o la fantasia) del volo: l’anello stregato di Venere lo porterà nei dintorni dell’infinito, e poi però ricorda: «I’m a million miles away/at the same time, I’m right here» (‘sono lontano un milione di miglia e allo stesso tempo sono proprio qua’). La trascendenza del viaggio stellare non fa dimenticare la condizione terrena.

La trascendenza torna come tema principale del capolavoro cinematografico 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick (1968), grande omaggio alla cultura psichedelica, non solo per la componente visiva (il balletto tecnologico, la visione cosmica) ma anche per il racconto. La scena chiave del film ricapitola la storia umana nella vicenda di un homo faber ineluttabilmente legato alla violenza: la scimmia che scopre il primo utensile, un osso per uccidere, e lo lancia in aria – con uno stacco che lo trasforma nella fantastica stazione spaziale orbitante. Anche l’esplorazione dello spazio sarà ineluttabilmente tragica per colpa del nuovo mostro di Frankenstein, il computer sfuggito alla programmazione. Ma si arriva all’epopea visionaria del sopravvissuto, fra giochi di luce psichedelici (the ultimate trip, prometteva uno dei manifesti del film) e scene del passato, fino alla comparsa di un feto che, si presume, rappresenta il successivo passo evolutivo – stavolta, forse, diverso dalle premesse umane.

In Il dottor Stranamore (1963) Kubrick aveva già affrontato il genere, in una satira sull’antimilitarismo e su un’idea di potenza (anche sessuale) predicata sull’assenza di limiti – incarnata dalla bomba atomica insieme al braccio artificiale del villain eponimo, che continua a rivoltarsi contro il suo corpo. Il sogno (la cui americanità è incarnata nel finale pseudo-western dal comandante aereo che si lancia a cavallo della bomba) di dominio sul mondo è un sogno solipsistico, a cui il mondo non potrà sopravvivere. È un mondo disastrato o sull’orlo dell’apocalisse quello della fantascienza cinematografica degli anni 60. Gli esempi sono tanti: da Il giorno dopo la fine del mondo (Panic in Year Zero, 1961), con Ray Milland e Frankie Avalon, tratto da Lot di Ward Moore, con sopravvivenza dopo la catastrofe; alla rivolta della natura nel sobborgo di San Francisco in Gli uccelli di Hitchcock (1963); alla parabola razziale del ciclo del Pianeta delle scimmie, inaugurato nel 1967; fino a distopie come Fahrenheit 451 di Truffaut (1966), L’uomo che fuggì dal futuro (THX 1138) di George Lucas e Gas-s-s-s di Roger Corman (1970), comico e surreale ritratto di una società in cui letteralmente si fa morire (il gas del titolo) chi ha più di venticinque anni. Malinconicamente elegiaco, e forse più mesto di tutti, è la storia della sconfitta delle aspirazioni di dignità di un diverso di I due mondi di Charly (Charly, 1968), tratto da Fiori per Algernon di Daniel Keyes.