Dagli USA, retrospettivamente, il gruppo più consistente di testi appare intento a rivitalizzare temi e motivi classici, aggiornandoli e talvolta sovvertendoli: il modo migliore, per un genere, di guardarsi dentro. E allora abbiamo la vera e propria rifondazione della space opera con Nova di Samuel R. Delany, che riscrive Moby-Dick mettendo al centro un vagabondo cyborg, insieme a preoccupazioni razziali, sessuali e linguistiche, e con sofisticatissimi romanzi di autori giù affermati, Ritornello di Charles L. Harness e il postumo The Underpeople di Cordwainer Smith. E qualcosa di simile troviamo in Rito di passaggio di Alexei Panshin e Picnic su Paradiso di Joanna Russ, innanzitutto grandi omaggi alla fantascienza d’epoca, chiaramente radicati nel presente. Davanti a questi libri, le storie puramente avventurose di Volo di drago di Anne McCaffrey o La trappola spaziale di Jack Williamson sembrano impallidire un poco, per quanto ben scritte: ma il punto è che questa nuova fantascienza non vuole “distruggere” il passato del genere, con cui resta sempre in dialogo.
Quando è la società statunitense il centro dell’attenzione, sono soprattutto le aspettative di perfezione a essere messe in dubbio. In Do Androids Dream of Electric Sheep? di Philip K. Dick, è il classico mito della frontiera a diventare la falsa coscienza con cui un’America futura cerca di nascondere le condizioni assai malconce in cui è sopravvissuta a una guerra devastante: e altrettanto desolato della terra è il paesaggio psichico umano – fra gli animali artificiali a cui ci si aggrappa per un’illusione di normalità e la casta di schiavi androidi usati per la colonizzazione spaziale – in cui in gioco è la definizione stessa di umanità, in termini etici, non biologici o (metaforicamente) razziali. Come per l’industriale costruttore di androidi di Dick, sono le illusioni demiurgiche di un creatore a essere distrutte nell’universo concentrazionario di Campo Archimede di Thomas Disch, dove la massima allucinazione è l’aspirazione di autonomia della coscienza individuale artistica. E della vanità di ogni utopia costruita a tavolino parla Thomas More, protagonista di Il maestro del passato di R.A. Lafferty. È di un mondo dove la manipolazione è sempre dietro l’angolo che continua a parlarci questa fantascienza, anche nella sua versione più umoristica, tagliente e satirica, Il sistema riproduttivo di John Sladek: seguendo l’esempio di Vonnegut, le macchine autoreplicanti sono un’altra forma dell’assurdo quotidiano.
Cosa abbastanza rara in un autore specializzato in storie di spossessamento del corpo e della psiche, è Robert Silverberg a produrre il libro più affermativo dell’annata fantascientifica, Le maschere del tempo, con un protagonista al limite del messianico, ma in fondo anche L’uomo nel labirinto, pur centrato sul tema dell’incomunicabilità, lascia spazio a una certa fiducia. La fiducia, però, sembra raffigurabile soltanto “altrove”, mentre gli scenari terrestri del 1968 di Silverberg vedono, in Hawksbill Station, un regime oppressivo che schiaccia sotto il suo tallone anche il passato preistorico.
Anche la fantasy trae beneficio da questo momento problematico della fantascienza, e fra i gioielli dell’anno ci sono The Goblin Reservation di Clifford D. Simak, romanzo “al confine” fra realismo provinciale, fantascienza degli universi paralleli e soprannaturali incarnazioni letterarie; Pasqua nera di James Blish, sofisticatissimo patto col diavolo di un mercante d’armi; e Il mago di Earthsea di Ursula K. Le Guin, ancora oggi la miglior alternativa alle più dozzinali imitazioni di Tolkien e delle leggende arturiane.
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